1...
A una certa età, inevitabilmente, l’uomo diventa
più riflessivo e s’interroga su fatti e cose apparentemente banali o dati per
scontati. In questi giorni freddi dell’inverno ungherese, avvicinandosi la
data, mi sono chiesto che cosa sia in realtà il compleanno. È un anno di vita
in più o in meno? In più o in meno, rispetto a che cosa, a quale traguardo? Un
anno rubato alla Signora che attende, inquieta, in fondo al viale o aggiunto
alla vita fin qui vissuta?
Le risposte non sono facili. Dipendono dal punto di vista
personale, perfino dall’umore momentaneo. Nell’incertezza, sarebbe preferibile
non festeggiare la ricorrenza. Obliarla, se possibile. Ma come si fa se tutti
te la ricordano? Affettuosamente. Ora anche FB.
Quest’anno, addirittura, ho festeggiato due volte il
compleanno. Una prima in casa, la sera del 21 gennaio, con Jolikè (alias Laky
Ilona Gyongyvér ) la quale, per l’occasione, ha preparato un fritto d’infidi
gamberi congelati provenienti dai lontani mari del Sud, esattamente dalla Nuova
Zelanda. Il tutto innaffiato con un vivace frizzantino ungherese. Una seconda
volta nel nostro ristorante preferito, la sera del 22, per dare soddisfazione
alla famiglia, per occhio di popolo come si suol dire. In fondo, onorai le mie
due date di nascita. Nacqui due volte, come spiegherò più avanti!
2...
Con Joliké stiamo insieme da più di 45 anni. Un
vero record, in tempi di divorzi facili. dire che il nostro matrimonio non si
celebrò sotto i migliori auspici. Chiarisco. Fissammo la data per il 26 luglio 1971, a Ecser, in Ungheria.
Il giorno non fu scelto a caso. Era, infatti, quello
dell’assalto alla caserma Moncada (26 luglio 1953) da parte delle brigate
castriste che, per quanto fallito, segnò l’inizio alla Rivoluzione cubana.
Ma, quel matrimonio fu, inaspettatamente, rinviato per
ordine ricevuto dal…Partito.
Cosa accadde? In quel fine luglio, il gruppo dirigente della
federazione agrigentina del Pci era impegnato in una difficile discussione
interna d’inquadramento, resasi necessaria a seguito delle disastrose (per
noi) elezioni regionali di qualche mese prima.
Fu il compagno Emanuele Macaluso, a quel tempo segretario
regionale e membro dell’UP (Ufficio politico), a chiedermi, in maniera
piuttosto risoluta, di rinviare il matrimonio a dopo la conclusione del
confronto sul riassetto dirigenziale cui ero personalmente interessato.
Opposi le mie ragioni ma non ci fu verso. Evidentemente, non
risultai convincente. D’altra parte, ero perfettamente al corrente che il
“Partito viene prima di tutto”. Ero convinto di questo assunto, tanto da
notificarlo alla mia futura sposa. Accettai a malincuore il rinvio, senza
polemiche, senza risentimenti. Questa era la prassi del Pci da tutti
volontariamente accettata. Per noi, il Partito era lo strumento principale
della lotta per la libertà e l’emancipazione dei lavoratori e, in quanto tale,
lo vedevamo come una sorta di “entità suprema” che ogni militante e dirigente
doveva difendere e rafforzare.
Oggi, un fatto del genere risulterebbe incredibile. Ma vi
assicuro che così andarono le cose. Lo possono testimoniare tanti compagni e
amici che in quel 26 di luglio ci inviarono telegrammi (che conservo da qualche
parte) augurandoci “mille di questi giorni”.
Un augurio un po’ amaro, beffardo. Soprattutto per la povera
Elena che, dalla lontana Ungheria, non si capacitava del fatto che si potesse
rinviare un matrimonio per ordine del Partito. Un fatto inaudito anche da loro
che, pur vivendo in regime di “partito unico”, non riuscivano a comprendere la
nostra rigidità disciplinare. La notizia era talmente incredibile che temette
un mio ravvedimento, in extremis.
In realtà, il matrimonio fu celebrato una settimana dopo, il
31 luglio del 1971 a
Ecser, in provincia di Budapest, in modo molto sobrio e “allietato” da alcuni
episodi stravaganti, perfino divertenti.
Fra i quali ricordo il ritardo accumulato dai miei due
testimoni di nozze, Angelo Capodicasa e Giovanni Sacco, i quali giunsero in
Ungheria in “500”… otto giorni dopo la celebrazione del matrimonio.
Se avrò tempo e gana, pubblicherò altri particolari di
questo mio pazzotico matrimonio ungherese.
3...
Nonostante tutto ciò, la nostra lunga unione si
è cementata nel tempo. Con Elena, che col tempo iniziai a chiamare Joliké [1],
abbiamo attraversato la vita, il nostro tempo. Abbiamo lottato, sofferto e
gioito sorretti da un grande affetto, da una solida intesa che ci ha consentito
di creare una bella famiglia, al di fuori di ogni legame di sangue, nello
spirito della solidarietà umana che è il fondamento del nostro Ideale. Mai
rinnegato.
45 anni! Non sono robetta. Invece di farci i complimenti, le
persone si mostrano sorprese per la nostra lunga convivenza.
Vogliono conoscere il “segreto”.
Ricordo che una sera, passeggiando con Jolikè nella
centralissima Deak ter di Budapest, ci fermò una ragazza che stava festeggiando
con le amiche l’addio al nubilato. Anche lei ci domandò il “segreto” della
nostra lunga unione. Le risposi: “La corda lunga”.
“Nem ertem”, la promessa sposa non capì ma non si arrese.
Cercai di chiarire l’apodittico concetto con la metafora
dell’asino di Vastianu. Pregai Joliké di tradurre.
Il segreto sta nel “legare” il coniuge con una corda
piuttosto lunga affinché, se gli va, possa muoversi un po’ liberamente nei
dintorni. Poiché, se la corda è troppo corta, potrà spazientirsi e scappare,
come fece l’asino di Vastianu che il padrone legò corto per averlo vicino
durante la notte.
Dopo una giornata di duro lavoro, l’asino desiderava
raggiungere un’asina che pasceva nel podere contiguo, ma ne era impedito dalla
corda troppo corta. Spazientito, estirpò “u pizzucu” che l’incatenava e sparì
nella vastità della campagna.
E, così, Vastianu perse l’asino con tutta la corda…
4...
Ma torniamo al compleanno. Vorrete, forse,
sapere perché lo festeggiammo due volte, in così rapida successione.
È presto detto. Per l’anagrafe, nacqui il 22 gennaio del
1948. Alcuni amici, per celia, sogliono anticipare di un secolo questa data.
Anticipazione che accetto di buon grado poiché il 1848 segnò
l’inizio della epopea risorgimentale in Sicilia e in Europa. Il famoso “48” della storia.
In realtà, nacqui - come più volte mi assicurò mia madre -
alle ore 22 del 21 gennaio del 1948. Mancavano solo due ore al nuovo giorno e
mio padre pensò bene di “rivelarmi” per il 22, per “farti guadagnare un giorno
in caso di guerra.”
Mi spiego: mio padre, il quale, poveretto, fra leva,
richiamo al fronte e prigionia in un lager nazista - si era fatto sette anni di
servizio militare volle spostare di un giorno la mia nascita nel timore che,
fra 18-20 anni, qualche esaltato dittatore o un guerrafondaio democratico
potesse dichiarare una nuova guerra.
Guadagnare un giorno poteva significare guadagnare la vita.
Sì, perché se la “chiamata alle armi” si fosse fermata al giorno precedente a
quello di nascita si poteva evitare la temutissima “cartolina-precetto” e la
“partenza” per il fronte.
Ovviamente, ci voleva anche un po’ di fortuna. Tuttavia,
tanti si sono sottratti alle tragiche incombenze della guerra proprio per il
fatto di esser nati il giorno dopo la scadenza del bando.
5...
A questo punto avrei voluto aprire una parentesi
graffa (ma sulla tastiera non trovo il tasto) per rilevare un inquietante
mutamento d’approccio verso la guerra da parte delle nuove generazioni. Ai
tempi dei due conflitti mondiali si aveva il terrore della cartolina-precetto e
per evitarla taluni si auto-invalidavano. Oggi tanti giovani, per lo più
inoccupati, fanno la fila, brigano per essere incorporati nelle forze armate
professionali e inviati in rischiose missioni militari all’estero:
dall’Afghanistan al Libano, dall’Iraq alla Somalia, ecc.
Certamente, ci saranno ragioni culturali, etiche d’induzione
alla guerra (che inizia con i bambini davanti i “wars games”), un’attrazione
del lauto soldo, ma prima di tutto c’è una questione sociale irrisolta, un
problema serio di occupazione e di mancanza di prospettiva professionale.
Insomma, l’arruolamento retribuito come soluzione del
problema del lavoro che non c’è.
Poiché, credo che nessuno, tranne pochi esaltati, ami la
guerra, il rischio della morte propria e delle tante procurate.
Tale tendenza, per altro, fa risaltare di più il valore di
quell’oculata, innocente precauzione di mio padre che, però, non mi avrebbe
consentito di festeggiare il compleanno insieme con quello della nascita del
Pci, il partito che ho amato e servito come un figlio devoto, che cadeva il 21
gennaio. Capirete che anch’io un po’ sto celiando. Anche perché mio padre, che
era lontano dalla politica, non poteva apprezzare tale, singolare coincidenza
celebrativa.
6...
Poiché siamo in argomento, desidero fare
un’altra preci-sazione: io non sono il secondo figlio di tre, come appare dalla
configurazione attuale della mia famiglia, ma il quarto di cinque.
Nel senso che i miei genitori (Pietro, ultimogenito di nonno
Calogero, il “viaggiatore”, e Giovanna Cultrera, ultimogenita di nonno
Agostino, rinomato poeta dialettale) ebbero in tutto cinque figli: due
(Calogero e Francesco) nati prima dello scoppio della guerra e morti in
tenerissima età. Il secondo, vista la morte del primo, fu “votato” a San
Francesco di Paola (patrono del paese ma un po’ pigro nel fare miracoli). Difatti, va fortissima una piccola Madonna!
Tre nati successivamente ossia un altro Calogero, io e mia
sorella Zina.
A questi due fratelli morti neonati, probabilmente, devo la
mia venuta al mondo poiché se fossero sopravvissuti, forse, i miei si sarebbero
fermati… a tre.
Per altro, aggiungo un particolare assurdo quanto
disdicevole, che denota la logica disumana del fascismo, legato alla nascita e
alla morte dei due fratellini.
A quel tempo (si era nella seconda metà degli anni ’30), il
regime fascista concedeva, per legge, un “premio” in denaro alle coppie che
mettevano al mondo figli, soprattutto maschi, da destinare alla patria
imperiale e alle future guerre programmate e/o minacciate.
Con i “premi” incassati per la nascita dei due bambini, i
miei decisero di fabbricare una stanzetta sopra il fatiscente catoio in cui
vivevano, per farne una stanza da letto e deposito stagionale per la “mancia”
ossia la riserva di fave e granaglie per sfamare la famiglia durante l’inverno.
Successe che qualcuno, fra i tanti leccaculo del locale
fascio, segnalò alle autorità preposte la morte dei due bimbi provocando, di
conseguenza, la revoca dei premi che erano stati incassati e investiti. I
funzionari furono irremovibili e mio padre fu costretto a restituire, a rate,
l’importo percepito.
7...
Di solito, quando si parla di nascite, di lieti
eventi ci si sofferma prevalentemente sulla madre, meno sul padre che pure
svolge un ruolo insostituibile nel concepimento e nella crescita della prole.
Pertanto, desidero dedicare due parole al mio che era un
operaio, un bracciante taciturno e laborioso. Per me era un uomo molto
speciale, giacché durante il ventennio, fu uno dei pochissimi abitanti del
paese a non iscriversi al fascio.
Non perché fosse un antifascista convinto, militante, ma per
un sentimento intimo d’orgoglio e d’anticonformismo. E pensare che aveva un
fratello “milite” il quale, potenza del privilegio, all’entrata in guerra
dell’Italia restò in paese a presidiare la sicurezza dei suoi amici gerarchi,
mentre mio padre, che fascista non era, fu richiamato a combattere una guerra
folle dichiarata da Mussolini, su ordine di Hitler.
Come accennato, stette quattro anni alla malora: due di
guerra nei Balcani e due di campo di concentramento in Germania, dove fu
deportato per essersi rifiutato, dopo l’armistizio, di combattere negli
eserciti nazifascisti.
Nel lager i prigionieri erano utilizzati per lavori
durissimi in condizioni umilianti, di vera schiavitù.
Tanto da essere meglio noti come “gli schiavi di Hitler”.
Solo raramente, mio padre parlava di questa sua drammatica
esperienza che gli valse, soltanto, una medaglia d’onore assegnatagli (alla
memoria) dal presidente della Repubblica.
8...
Come scrivo in altra parte, mio padre fu uno
degli ultimi “sbandati” a ritornare in paese. Quando fu sicuro d’esser uscito
dall’incubo della guerra volle fare un figlio. Per ricominciare...
Così, nacqui io, figlio del dopoguerra, di quella stagione
segnata di speranze e turbolenze che vide l’Italia e l’Europa ritornare,
lentamente, alla vita, alla libertà, alla democrazia.
Gli uomini rientrati dai fronti o dalle prigioni, per prima
cosa, fecero figli, anche se non disponevano di un lavoro remunerativo e di
cibo sufficiente per sfamarli.
Procreare era un segno di vitalità, di affermazione di una
volontà di rinascita, d’altruismo.
Nel triennio 1948-50, nascemmo una caterva di bambini con
dentro i cromosomi del rifiuto, del terrore della guerra e la voglia di
progredire oltre i limiti storici dell’atavica, feudale condizione umana e
politica.
Vidi la luce in quella stanzetta fredda (del premio
revocato), al primo piano di via Salita Panzera, attaccata alla grande madre
Roccia e al recipiente del Voltano. Povera madre mia. Per lei sarà stato un
travaglio davvero doloroso, complicato visto che pesavo 5,6 kg.
Entrambi, madre e figlio, ce la cavammo bene grazie anche
alla perizia della levatrice, signora Maria Cimino.
Mesi dopo, nel 1949, nacquero, con l’ausilio della stessa
ostetrica, i citati Giovanni Sacco e Angelo Capodicasa.
Il caso volle che nel comune percorso politico incontrassimo
Dino Tuttolomondo, figlio della nostra levatrice e segretario provinciale del
Pci, con il quale, a un certo punto, ci scontrammo, non per fatto personale ma esclusivamente
per il bene del Partito.
A cavallo fra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, questi
quattro “giancascisi” ci ritrovammo impegnati nella direzione della
Federazione provinciale del Pci di Agrigento, talvolta muovendo da punti di
vista differenti, in una difficile battaglia politica, anche interna, per
bloccare la decadenza del Partito e riportarlo (come poi avvenne) a più alti
livelli di consistenza elettorale e di protagonismo politico.
Un confronto doloroso ma necessario, del quale più mi
preoccupava lo stato d’animo di quella gentile signora quando avrà saputo del
contrasto insorto fra suo figlio e i tre baldi giovanotti che lei aveva aiutato
a vedere la luce della vita.
9...
Termino, con una menzione al mio “fratello di
latte” alias Giuseppe Sacco (inteso “Peppi di Filippa”) che, per un lungo
periodo, sarebbe divenuto compagno di giochi e di lotta politica.
Fratello di latte era chiamato quel neonato il quale, non
potendo allattare al seno materno, era affidato alle cure di una puerpera che
già allattava il suo. Zia Filippa pregò mia madre di badare al figlio.
Così con Peppi ci ritrovammo “fratelli” che, come due
cuccioli affamati, succhiavano dalle medesime “fonti sacre” della vita.
Le mammelle
intendo dire che gli antichi rispettavano per la loro sacralità. Adoravano
Artemide di Efeso per le sue molte mammelle, simboli di bellezza e di
fertilità. Purtroppo, oggi, capita di vederle mercificate da ignobili
pubblicitari e da sfruttatori senza scrupoli che, forse, le considerano “la
cosa più superflua e vuota, essenza vana…” come ebbe a scrivere Ramon de la Serna, celebre scrittore
spagnolo. (Ramon Gomez de la
Serna, autore di “Seni”, Edizioni Dell’Oglio, 1978)
Mia madre non era una balia. Accettò solo per pietà umana.
Era una donna forte e generosa e, seppure vivesse in condizioni di povertà,
allattò quel bimbo come se fosse stato il mio gemello.
Zia Filippa, che certo capiva la situazione, ogni tanto
portava, col bambino, una “mbroglia di pani” e un po’ di brodo di gallina caldo
nel portapranzo. Allora il “pranzo” non si consumava a tavola, ma si “portava”,
anzi si trasportava, dentro ciotole e camelle (contenitori di alluminio), di
casa in casa o per le vastità delle campagne. Con quelle poche sostanze, mia
madre continuò ad allattare i due “ladroni”, come simpaticamente ci avevano ribattezzato.
Tempi duri quelli, ma anche di umana solidarietà fra poveri.
Specie fra queste orgogliose madri del Sud che fecero (continuano a fare)
enormi sacrifici per allevare e far crescere i figli che avrebbero visto
partire per il Nord che, sovente, si è mostrato ingrato.
Comunque sia, un progresso c’è stato: mentre prima i giovani
partivano per la guerra e molti non tornavano più, oggi partono per studiare,
per lavorare e d’estate ritornano al paese. Solo d’estate.
Il problema, il nostro grande problema, è quello di vedere
cosa fare sul serio per farli restare nel Sud, vicino alle loro madri.
[1]
Mio suocero Laky Karoly, cultore della storia del popolo magiaro derivato dagli
Unni, impose al figlio il nome di Attila e alla figlia quello di Ilona
Gyongyvér che vuol dire “Sangue della sorella di Attila”. Con un nome così
lungo e impegnativo s’imponeva un vezzeggiativo: Jolikè.
(in: "IL CAVALIERE E LA NOTTE" http://www.lafeltrinelli.it/libri/agostino-spataro/cavaliere-e-notte/9788892326071)
(in: "IL CAVALIERE E LA NOTTE" http://www.lafeltrinelli.it/libri/agostino-spataro/cavaliere-e-notte/9788892326071)