di Agostino Spataro
Due
volumetti sono già usciti (si veda foto/copertine). Il terzo, in
corso di stampa, è titolato “Nemo poeta
in patria- Il poeta ritrovato: il caso di Domenico Azzaretto”. Una scoperta
davvero clamorosa del talento di un poeta dialettale, semianalfabeta, quasi
sconosciuto in patria (a Ioppolo Giancaxio), ma noto fra gli studiosi di alcune
università italiane e degli Stati Uniti d’America. A sua e a nostra insaputa.
“I gufetti” non hanno alcuna pretesa editoriale, commerciale.
Stampati a mie spese per mero diletto, vogliono essere una mini serie
(personale) di piccoli libri (11x17), scritti con un taglio prevalentemente
giornalistico e composti con piglio meticoloso, artigianale, con l’obiettivo di
raccogliere notizie, testimonianze, documenti relativi a fatti e a personaggi insoliti, noti o
dimenticati o volutamente ignorati.
Perché “gufetti”?
Dietro questo nome c’è una storiella di rivalità campanilistica, risalente al
tempo della lotta per l’autonomia comunale, quando i ioppolesi, insofferenti
alla dipendenza dalla vicina Raffadali, bollarono
i raffadalesi con l’epiteto di “maccu” ossia di mangiatori di quella deliziosa
(e nutriente) crema di fave che, per secoli, forse per millenni, è stata una
fonte alimentare primaria per i poveri.
Più che un dileggio, a me pare un elogio. Tranne che i nostri avi non attinsero
dal pensiero di Empedocle akragantino il quale, in uno dei suoi pochi frammenti
pervenutici, condannò severamente i mangiatori di fave. Chissà poi perché?
Per tutta risposta, i raffadalesi ci appiopparono l’epiteto di “cucchi” (gufi)
ossia uccelli del malaugurio, per via di una piccola colonia di gufi e di barbagianni,
appartenenti alla nobile famiglia degli strigidi, che nidificano nella rocca
del castello e in qualche anfratto della campagna circostante e che di notte
escono dai loro nascondigli e fanno la spola fra le due rocche alla ricerca di
prede prelibate.
Volano in solitario, raramente in coppia, nel cielo più basso. Con vista acuta
fendono le ombre, gli ammassi di fogliame, scovano la preda e vi si lanciano addosso,
in picchiata, artigliandola senza pietà.
Dominano la tenebra con il loro verso contratto, insistente, minaccioso che
terrorizza le vittime e ravviva la nostra notte insonne.
Per noi, il gufo non è la civetta di sciasciana memoria, portatrice di
sventura, ma un gradito visitatore notturno che, con il suo bubolare e il suo
secco stormire d’ali, ci rassicura. Quasi che fra noi e i gufi ci fosse un
patto indissolubile, vitale: noi ci saremo finché loro ci saranno.
E così, a distanza di un secolo dalla riconquistata autonomia comunale,
continuiamo a riconoscerci, reciprocamente e scherzosamente, con questi due
appellativi entrambi inappropriati.
La storiella- qui solo accennata- evidenzia un capovolgimento degli intenti
(offensivi) e rivaluta le qualità effettive dei due epiteti. Soprattutto,
riabilitano la reputazione dei gufi da cui nascono questi “gufetti”. Eccovi i
primi tre stampati per il mio diletto e spero anche per il vostro. (a.s.)