domenica 30 luglio 2017

IL MATRIMONIO RINVIATO PER ORDINE RICEVUTO DAL...PARTITO




1...              A una certa età, inevitabilmente, l’uomo diventa più riflessivo e s’interroga su fatti e cose apparentemente banali o dati per scontati. In questi giorni freddi dell’inverno ungherese, avvicinandosi la data, mi sono chiesto che cosa sia in realtà il compleanno. È un anno di vita in più o in meno? In più o in meno, rispetto a che cosa, a quale traguardo? Un anno rubato alla Signora che attende, inquieta, in fondo al viale o aggiunto alla vita fin qui vissuta?
Le risposte non sono facili. Dipendono dal punto di vista personale, perfino dall’umore momentaneo. Nell’incertezza, sarebbe preferibile non festeggiare la ricorrenza. Obliarla, se possibile. Ma come si fa se tutti te la ricordano? Affettuosamente. Ora anche FB.
Quest’anno, addirittura, ho festeggiato due volte il compleanno. Una prima in casa, la sera del 21 gennaio, con Jolikè (alias Laky Ilona Gyongyvér ) la quale, per l’occasione, ha preparato un fritto d’infidi gamberi congelati provenienti dai lontani mari del Sud, esattamente dalla Nuova Zelanda. Il tutto innaffiato con un vivace frizzantino ungherese. Una seconda volta nel nostro ristorante preferito, la sera del 22, per dare soddisfazione alla famiglia, per occhio di popolo come si suol dire. In fondo, onorai le mie due date di nascita. Nacqui due volte, come spiegherò più avanti!

2...              Con Joliké stiamo insieme da più di 45 anni. Un vero record, in tempi di divorzi facili. dire che il nostro matrimonio non si celebrò sotto i migliori auspici. Chiarisco. Fissammo la data per il 26 luglio 1971, a Ecser, in Ungheria.
Il giorno non fu scelto a caso. Era, infatti, quello dell’assalto alla caserma Moncada (26 luglio 1953) da parte delle brigate castriste che, per quanto fallito, segnò l’inizio alla Rivoluzione cubana.
Ma, quel matrimonio fu, inaspettatamente, rinviato per ordine ricevuto dal…Partito.
Cosa accadde? In quel fine luglio, il gruppo dirigente della federazione agrigentina del Pci era impegnato in una difficile discussione interna d’inquadramento, resasi necessaria a seguito delle disastrose (per noi) elezioni regionali di qualche mese prima.
Fu il compagno Emanuele Macaluso, a quel tempo segretario regionale e membro dell’UP (Ufficio politico), a chiedermi, in maniera piuttosto risoluta, di rinviare il matrimonio a dopo la conclusione del confronto sul riassetto dirigenziale cui ero personalmente interessato.
Opposi le mie ragioni ma non ci fu verso. Evidentemente, non risultai convincente. D’altra parte, ero perfettamente al corrente che il “Partito viene prima di tutto”. Ero convinto di questo assunto, tanto da notificarlo alla mia futura sposa. Accettai a malincuore il rinvio, senza polemiche, senza risentimenti. Questa era la prassi del Pci da tutti volontariamente accettata. Per noi, il Partito era lo strumento principale della lotta per la libertà e l’emancipazione dei lavoratori e, in quanto tale, lo vedevamo come una sorta di “entità suprema” che ogni militante e dirigente doveva difendere e rafforzare.
Oggi, un fatto del genere risulterebbe incredibile. Ma vi assicuro che così andarono le cose. Lo possono testimoniare tanti compagni e amici che in quel 26 di luglio ci inviarono telegrammi (che conservo da qualche parte) augurandoci “mille di questi giorni”.
Un augurio un po’ amaro, beffardo. Soprattutto per la povera Elena che, dalla lontana Ungheria, non si capacitava del fatto che si potesse rinviare un matrimonio per ordine del Partito. Un fatto inaudito anche da loro che, pur vivendo in regime di “partito unico”, non riuscivano a comprendere la nostra rigidità disciplinare. La notizia era talmente incredibile che temette un mio ravvedimento, in extremis.
In realtà, il matrimonio fu celebrato una settimana dopo, il 31 luglio del 1971 a Ecser, in provincia di Budapest, in modo molto sobrio e “allietato” da alcuni episodi stravaganti, perfino divertenti.
Fra i quali ricordo il ritardo accumulato dai miei due testimoni di nozze, Angelo Capodicasa e Giovanni Sacco, i quali giunsero in Ungheria in “500”… otto giorni dopo la celebrazione del matrimonio.
Se avrò tempo e gana, pubblicherò altri particolari di questo mio pazzotico matrimonio ungherese.

3...              Nonostante tutto ciò, la nostra lunga unione si è cementata nel tempo. Con Elena, che col tempo iniziai a chiamare Joliké [1], abbiamo attraversato la vita, il nostro tempo. Abbiamo lottato, sofferto e gioito sorretti da un grande affetto, da una solida intesa che ci ha consentito di creare una bella famiglia, al di fuori di ogni legame di sangue, nello spirito della solidarietà umana che è il fondamento del nostro Ideale. Mai rinnegato.
45 anni! Non sono robetta. Invece di farci i complimenti, le persone si mostrano sorprese per la nostra lunga convivenza.
Vogliono conoscere il “segreto”.
Ricordo che una sera, passeggiando con Jolikè nella centralissima Deak ter di Budapest, ci fermò una ragazza che stava festeggiando con le amiche l’addio al nubilato. Anche lei ci domandò il “segreto” della nostra lunga unione. Le risposi: “La corda lunga”.
“Nem ertem”, la promessa sposa non capì ma non si arrese.
Cercai di chiarire l’apodittico concetto con la metafora dell’asino di Vastianu. Pregai Joliké di tradurre.
Il segreto sta nel “legare” il coniuge con una corda piuttosto lunga affinché, se gli va, possa muoversi un po’ liberamente nei dintorni. Poiché, se la corda è troppo corta, potrà spazientirsi e scappare, come fece l’asino di Vastianu che il padrone legò corto per averlo vicino durante la notte.
Dopo una giornata di duro lavoro, l’asino desiderava raggiungere un’asina che pasceva nel podere contiguo, ma ne era impedito dalla corda troppo corta. Spazientito, estirpò “u pizzucu” che l’incatenava e sparì nella vastità della campagna.
E, così, Vastianu perse l’asino con tutta la corda…

4...              Ma torniamo al compleanno. Vorrete, forse, sapere perché lo festeggiammo due volte, in così rapida successione.
È presto detto. Per l’anagrafe, nacqui il 22 gennaio del 1948. Alcuni amici, per celia, sogliono anticipare di un secolo questa data.
Anticipazione che accetto di buon grado poiché il 1848 segnò l’inizio della epopea risorgimentale in Sicilia e in Europa. Il famoso “48” della storia.
In realtà, nacqui - come più volte mi assicurò mia madre - alle ore 22 del 21 gennaio del 1948. Mancavano solo due ore al nuovo giorno e mio padre pensò bene di “rivelarmi” per il 22, per “farti guadagnare un giorno in caso di guerra.”
Mi spiego: mio padre, il quale, poveretto, fra leva, richiamo al fronte e prigionia in un lager nazista - si era fatto sette anni di servizio militare volle spostare di un giorno la mia nascita nel timore che, fra 18-20 anni, qualche esaltato dittatore o un guerrafondaio democratico potesse dichiarare una nuova guerra.
Guadagnare un giorno poteva significare guadagnare la vita. Sì, perché se la “chiamata alle armi” si fosse fermata al giorno precedente a quello di nascita si poteva evitare la temutissima “cartolina-precetto” e la “partenza” per il fronte.
Ovviamente, ci voleva anche un po’ di fortuna. Tuttavia, tanti si sono sottratti alle tragiche incombenze della guerra proprio per il fatto di esser nati il giorno dopo la scadenza del bando.


5...              A questo punto avrei voluto aprire una parentesi graffa (ma sulla tastiera non trovo il tasto) per rilevare un inquietante mutamento d’approccio verso la guerra da parte delle nuove generazioni. Ai tempi dei due conflitti mondiali si aveva il terrore della cartolina-precetto e per evitarla taluni si auto-invalidavano. Oggi tanti giovani, per lo più inoccupati, fanno la fila, brigano per essere incorporati nelle forze armate professionali e inviati in rischiose missioni militari all’estero: dall’Afghanistan al Libano, dall’Iraq alla Somalia, ecc.
Certamente, ci saranno ragioni culturali, etiche d’induzione alla guerra (che inizia con i bambini davanti i “wars games”), un’attrazione del lauto soldo, ma prima di tutto c’è una questione sociale irrisolta, un problema serio di occupazione e di mancanza di prospettiva professionale.
Insomma, l’arruolamento retribuito come soluzione del problema del lavoro che non c’è.
Poiché, credo che nessuno, tranne pochi esaltati, ami la guerra, il rischio della morte propria e delle tante procurate.
Tale tendenza, per altro, fa risaltare di più il valore di quell’oculata, innocente precauzione di mio padre che, però, non mi avrebbe consentito di festeggiare il compleanno insieme con quello della nascita del Pci, il partito che ho amato e servito come un figlio devoto, che cadeva il 21 gennaio. Capirete che anch’io un po’ sto celiando. Anche perché mio padre, che era lontano dalla politica, non poteva apprezzare tale, singolare coincidenza celebrativa.

6...              Poiché siamo in argomento, desidero fare un’altra preci-sazione: io non sono il secondo figlio di tre, come appare dalla configurazione attuale della mia famiglia, ma il quarto di cinque.
Nel senso che i miei genitori (Pietro, ultimogenito di nonno Calogero, il “viaggiatore”, e Giovanna Cultrera, ultimogenita di nonno Agostino, rinomato poeta dialettale) ebbero in tutto cinque figli: due (Calogero e Francesco) nati prima dello scoppio della guerra e morti in tenerissima età. Il secondo, vista la morte del primo, fu “votato” a San Francesco di Paola (patrono del paese ma un po’ pigro nel fare miracoli). Difatti, va fortissima una piccola Madonna!
Tre nati successivamente ossia un altro Calogero, io e mia sorella Zina.
A questi due fratelli morti neonati, probabilmente, devo la mia venuta al mondo poiché se fossero sopravvissuti, forse, i miei si sarebbero fermati… a tre.
Per altro, aggiungo un particolare assurdo quanto disdicevole, che denota la logica disumana del fascismo, legato alla nascita e alla morte dei due fratellini.
A quel tempo (si era nella seconda metà degli anni ’30), il regime fascista concedeva, per legge, un “premio” in denaro alle coppie che mettevano al mondo figli, soprattutto maschi, da destinare alla patria imperiale e alle future guerre programmate e/o minacciate.
Con i “premi” incassati per la nascita dei due bambini, i miei decisero di fabbricare una stanzetta sopra il fatiscente catoio in cui vivevano, per farne una stanza da letto e deposito stagionale per la “mancia” ossia la riserva di fave e granaglie per sfamare la famiglia durante l’inverno.
Successe che qualcuno, fra i tanti leccaculo del locale fascio, segnalò alle autorità preposte la morte dei due bimbi provocando, di conseguenza, la revoca dei premi che erano stati incassati e investiti. I funzionari furono irremovibili e mio padre fu costretto a restituire, a rate, l’importo percepito.

7...              Di solito, quando si parla di nascite, di lieti eventi ci si sofferma prevalentemente sulla madre, meno sul padre che pure svolge un ruolo insostituibile nel concepimento e nella crescita della prole.
Pertanto, desidero dedicare due parole al mio che era un operaio, un bracciante taciturno e laborioso. Per me era un uomo molto speciale, giacché durante il ventennio, fu uno dei pochissimi abitanti del paese a non iscriversi al fascio.
Non perché fosse un antifascista convinto, militante, ma per un sentimento intimo d’orgoglio e d’anticonformismo. E pensare che aveva un fratello “milite” il quale, potenza del privilegio, all’entrata in guerra dell’Italia restò in paese a presidiare la sicurezza dei suoi amici gerarchi, mentre mio padre, che fascista non era, fu richiamato a combattere una guerra folle dichiarata da Mussolini, su ordine di Hitler.
Come accennato, stette quattro anni alla malora: due di guerra nei Balcani e due di campo di concentramento in Germania, dove fu deportato per essersi rifiutato, dopo l’armistizio, di combattere negli eserciti nazifascisti.
Nel lager i prigionieri erano utilizzati per lavori durissimi in condizioni umilianti, di vera schiavitù.
Tanto da essere meglio noti come “gli schiavi di Hitler”.
Solo raramente, mio padre parlava di questa sua drammatica esperienza che gli valse, soltanto, una medaglia d’onore assegnatagli (alla memoria) dal presidente della Repubblica.

8...              Come scrivo in altra parte, mio padre fu uno degli ultimi “sbandati” a ritornare in paese. Quando fu sicuro d’esser uscito dall’incubo della guerra volle fare un figlio. Per ricominciare...
Così, nacqui io, figlio del dopoguerra, di quella stagione segnata di speranze e turbolenze che vide l’Italia e l’Europa ritornare, lentamente, alla vita, alla libertà, alla democrazia.
Gli uomini rientrati dai fronti o dalle prigioni, per prima cosa, fecero figli, anche se non disponevano di un lavoro remunerativo e di cibo sufficiente per sfamarli.
Procreare era un segno di vitalità, di affermazione di una volontà di rinascita, d’altruismo.
Nel triennio 1948-50, nascemmo una caterva di bambini con dentro i cromosomi del rifiuto, del terrore della guerra e la voglia di progredire oltre i limiti storici dell’atavica, feudale condizione umana e politica.
Vidi la luce in quella stanzetta fredda (del premio revocato), al primo piano di via Salita Panzera, attaccata alla grande madre Roccia e al recipiente del Voltano. Povera madre mia. Per lei sarà stato un travaglio davvero doloroso, complicato visto che pesavo 5,6 kg.
Entrambi, madre e figlio, ce la cavammo bene grazie anche alla perizia della levatrice, signora Maria Cimino.
Mesi dopo, nel 1949, nacquero, con l’ausilio della stessa ostetrica, i citati Giovanni Sacco e Angelo Capodicasa.
Il caso volle che nel comune percorso politico incontrassimo Dino Tuttolomondo, figlio della nostra levatrice e segretario provinciale del Pci, con il quale, a un certo punto, ci scontrammo, non per fatto personale ma esclusivamente per il bene del Partito.
A cavallo fra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, questi quattro “giancascisi” ci ritrovammo impegnati nella direzione della Federazione provinciale del Pci di Agrigento, talvolta muovendo da punti di vista differenti, in una difficile battaglia politica, anche interna, per bloccare la decadenza del Partito e riportarlo (come poi avvenne) a più alti livelli di consistenza elettorale e di protagonismo politico.
Un confronto doloroso ma necessario, del quale più mi preoccupava lo stato d’animo di quella gentile signora quando avrà saputo del contrasto insorto fra suo figlio e i tre baldi giovanotti che lei aveva aiutato a vedere la luce della vita.

9...              Termino, con una menzione al mio “fratello di latte” alias Giuseppe Sacco (inteso “Peppi di Filippa”) che, per un lungo periodo, sarebbe divenuto compagno di giochi e di lotta politica.
Fratello di latte era chiamato quel neonato il quale, non potendo allattare al seno materno, era affidato alle cure di una puerpera che già allattava il suo. Zia Filippa pregò mia madre di badare al figlio.
Così con Peppi ci ritrovammo “fratelli” che, come due cuccioli affamati, succhiavano dalle medesime “fonti sacre” della vita.
Le mammelle intendo dire che gli antichi rispettavano per la loro sacralità. Adoravano Artemide di Efeso per le sue molte mammelle, simboli di bellezza e di fertilità. Purtroppo, oggi, capita di vederle mercificate da ignobili pubblicitari e da sfruttatori senza scrupoli che, forse, le considerano “la cosa più superflua e vuota, essenza vana…” come ebbe a scrivere Ramon de la Serna, celebre scrittore spagnolo. (Ramon Gomez de la Serna, autore di “Seni”, Edizioni Dell’Oglio, 1978)
Mia madre non era una balia. Accettò solo per pietà umana. Era una donna forte e generosa e, seppure vivesse in condizioni di povertà, allattò quel bimbo come se fosse stato il mio gemello.
Zia Filippa, che certo capiva la situazione, ogni tanto portava, col bambino, una “mbroglia di pani” e un po’ di brodo di gallina caldo nel portapranzo. Allora il “pranzo” non si consumava a tavola, ma si “portava”, anzi si trasportava, dentro ciotole e camelle (contenitori di alluminio), di casa in casa o per le vastità delle campagne. Con quelle poche sostanze, mia madre continuò ad allattare i due “ladroni”, come simpaticamente ci avevano ribattezzato.
Tempi duri quelli, ma anche di umana solidarietà fra poveri. Specie fra queste orgogliose madri del Sud che fecero (continuano a fare) enormi sacrifici per allevare e far crescere i figli che avrebbero visto partire per il Nord che, sovente, si è mostrato ingrato.
Comunque sia, un progresso c’è stato: mentre prima i giovani partivano per la guerra e molti non tornavano più, oggi partono per studiare, per lavorare e d’estate ritornano al paese. Solo d’estate.
Il problema, il nostro grande problema, è quello di vedere cosa fare sul serio per farli restare nel Sud, vicino alle loro madri.


[1] Mio suocero Laky Karoly, cultore della storia del popolo magiaro derivato dagli Unni, impose al figlio il nome di Attila e alla figlia quello di Ilona Gyongyvér che vuol dire “Sangue della sorella di Attila”. Con un nome così lungo e impegnativo s’imponeva un vezzeggiativo: Jolikè.
(in:  "IL CAVALIERE E LA NOTTE" http://www.lafeltrinelli.it/libri/agostino-spataro/cavaliere-e-notte/9788892326071)

martedì 30 maggio 2017

"I RACCONTI DI REALTURCO"






SCHEDA DEI DUE VOLUMI

Titolo:  “I RACCONTI DI REALTURCO”

Autore: Agostino Spataro

1° Volume: n. 56 racconti, 24 foto d’epoca -  Pagine   288

2° Volume: n. 41 racconti, 29 foto d’epoca -  Pagine   256

Edizione speciale a cura del Comune di Ioppolo Giancaxio, 2017
(in corso di stampa)

Presentazione del Sindaco

Dopo “Ioppolo Giancaxio: fra storia e memoria”, che rievoca la storia e i principali avvenimenti politici e sociali del paese, Agostino Spataro pubblica quest’ampia raccolta (circa 100) di “Racconti di Realturco”, estrapolati dalla tradizione locale del “cuntu” e della poesia vernacolare.
Il lavoro, diviso in due volumi, vuole essere un contributo alla ricostruzione della nostra identità culturale e alla salvaguardia della memoria collettiva. In tal senso, l’opera riscopre un percorso culturale interessante, per molti versi inedito, attraverso il quale è possibile ripercorrere sentieri smarriti o ignoti ai più giovani, cogliere taluni aspetti, anche etnografici, della nostra vicenda umana così come si è dipanata negli ultimi decenni.
Si tratta, infatti, di un contributo prezioso che, unitamente a quelli di altri autori, arricchisce il patrimonio culturale di Ioppolo Giancaxio.  Un lavoro davvero propizio specie in questa fase nella quale siamo impegnati a rilanciare la prospettiva economica del nostro paese, soprattutto sui versanti dell’agricoltura, dell’accoglienza turistica e dell’intrattenimento.
Questi “racconti” sono un “lascito” che consegniamo agli scolari e agli studenti delle nostre scuole, alle nuove generazioni, ai nostri tanti emigrati in varie parti del mondo, a tutti i cittadini residenti e ai graditi ospiti che vorranno venire a trovarci.
Ritenendo d’interpretare il pensiero del Consiglio comunale e della cittadinanza, l’Amministrazione comunale di Ioppolo Giancaxio ha deciso di pubblicare il lavoro di Agostino Spataro, già consigliere e assessore comunale e deputato nazionale, ringraziandolo per avere egli concesso, gratuitamente, al nostro Comune i diritti d’autore e reso così possibile la presente edizione.  Buona lettura. 

Angelo Giuseppe Portella
Sindaco di Ioppolo Giancaxio.

Maggio 2017



VOLUME PRIMO


Indice  

Presentazione del Sindaco

La nostra storia (nota dell’Autore)

Il tempo delle meraviglie                                                                        pag. 1

La dance music: da New York a Realturco - “Pira nun facisti e mraculi vo fari ” - L’uomo che portò il cinema a Realturco - Il venditore di fortuna - L’antro di Abu Agim - La radio - La viulata di san Jabicu - Cristo fra le stoppie. 

Il tempo ritrovato                                                                                   pag. 57

L’orto dei meloni - L’onore perduto della cugina americana - Matrimonio notturno - Cu voli grazii… - Mietitura - Cunsamu anelli, svegli e orecchine - Il fotografo ambulante - Il compratore di ferro vecchio - U vanniaturi - Alcuni giochi fanciulleschi - Capelli per pupe e spingule francesi - La crisi e le feste comandate - Elogio della ficodindia natalina - Strattu di pumadamuri - Un viaggio in autobus.

Il tempo divinato                                                                                   pag. 115

Monte Famoso - Le età dell’uomo - L’uomo che fermò il vento, ma non conquistò la luna: 1° episodio “Dragunera”; 2° episodio “Prova d’ombra, ritorna la teoria geocentrica”; 3° episodio “La luna nell’acqua”- L’humor nero di Peppi Sangiorgi - Bestemmie cifrate - Il ritorno del padre - La corda lunga - Il respiro della Terra. 

Il tempo incatenato                                                                               pag. 159
Bellafana - Il gatto congelato - La viscuglia, il raccolto dei poveri - Il pozzo di Sofia: l’onore salvato, la figlia perduta - O mi maritati o mi mangiu a Gilormu.

Il tempo incoronato                                                                             pag. 197
La neo martire - Anche l’occhio di Dio vuole la sua parte - All’osteria di Papata Giugia - Il passionista - La grande Madre roccia - L’eco vagante - Niculizia - Gli uccelli, i primi re.

Il tempo malvissuto                                                                              pag. 235
Il cacciatore di pettirossi - Aritmetica mafiosa - Estrema finzione - Il supplizio dell’omertà - Le cantatrici scalze di donna Bertina - Patruni e cumpagnu - Il re del terremoto - Il cavaliere Lampasona.

Galleria di foto (24 foto d’epoca)


 VOLUME SECONDO

Indice  


L’umanità del “cuntu”                                                                      pag. V

Museo d’ombre                                                                                   pag.1

La Merica a Cummatini - Tanu e Turiddru - Zi Giuvanni, il cerusico - Il duca garibaldino - Testa di Panzittinu - La follia felice - La maschiata - Due santi napoletani - U re Magnu - L’attesa - Giovannni Antonio Colonna: fra Ioppolo e Roma - L’attentato a Mussolini.

Cronachette elettorali                                                                        pag. 61

Viva Torquato Tasso - Il primo dei non eletti - Il triplo lavoro.


L’amore prima del viagra                                                                pag. 101

Casto amore, a limone e che bello - La fotografia - Unione civile - L’amore al tempo del viagra.

Della morte e d’altre facezie                                                            pag. 125

Una morte libertina - Morto che allunga - Dietro le quinte della camera ardente - Un monologo nella cripta - L’incompiuta - Morto che saluta - Un vestito per la morte.

Pianeta onirico                                                                                  pag. 177

Luna piena e maculata - Il risveglio del telamone - Peppi Nifu è tornato - Un uomo chiamato viaggio. 

Il fiume anidro                                                                                   pag. 209

Dazio - Costolette di maiale - A finanza - Vantari la vigna - Setti vestii e tanticchia - Quattro piedi e un culo - In trincea, in trincea - La guerra sta… tornando - Fratello mulo - Fritto misto di…sangue - Family day, il dolore di una madre del Sud.

Galleria di foto (29 foto d’epoca)

sabato 6 maggio 2017

Agostino Spataro, bibliografia essenziale




Agostino Spataro, 1948 - Bibliografia essenziale.
Giornalista, già deputato al Parlamento nazionale.

Ha scritto vari saggi, fra i quali:
-  Per la Sicilia”, (pref/ne di Giorgio Napolitano), Agrigento, 1982
-  Missili e mafia”(con Paolo Gentiloni, Alberto Spampinato) Editori Riuniti, Roma,1985
-  I Paesi del Golfo”, Edizioni Associate, Roma, 1991
- “Il Mediterraneo” (con Bichara Khader), Editrice Internazionale , Roma, 1993
- “La notte dello sceicco”-Reportage dallo Yemen”, Edizioni Associate, Roma, 1994
- “Ioppolo Giancaxio: fra storia e memoria”, Ed. Tricentenario, 1996
- “Il Pianeta unico” (con Naom Chomsky, Ricardo Petrella, ecc), Eleuthera, Milano, 1999
-  Le tourisme en Méditerranée”, Editions l’Harmattan, Paris, 2000
- “Il fondamentalismo islamico- Dalle origini a Bin Laden”, (pref/ne di Yasser Arafat ), Editori Riuniti, Roma, 2001
- “Petrolio, il sangue della guerra”, Ed. CSM- Ilmiolibro, Roma, 2012
- “Nella Libia di Gheddafi”, Ed. CSM -Ilmiolibro, Roma, 2013
-  I giardini della nobile brigata”,Ed. CSM - Ilmiolibro, Roma, 2014  
- “Borges, nella Sicilia del mito”, Ed. Amazon, 2016
- “Siglo XXI - La economia del terror?”,  (con Giuseppe Lo Brutto) Ediciones “E y C”- Città  del Messico, 2016










                 
















mercoledì 3 maggio 2017

"IL CAVALIERE E LA NOTTE" secondo volume di racconti di Agostino Spataro






Indice

L’umanità del “cuntu”                                                                                                          pag. V

Museo d’ombre                                                                                                                  pag.1

La Merica a Cummatini – Tanu e Turiddru – Zi Giuvanni, il cerusico - Il duca garibaldino - Testa di Panzittinu - La follia felice - La maschiata - Due santi napoletani - U re Magnu – Il ritorno dell’assente- Giovanni Antonio Colonna: fra Ioppolo e Roma / L’attentato a Mussolini.

Cronachette elettorali                                                                                                    pag. 65
Viva Torquato Tasso - Il primo dei non eletti – Il triplo lavoro.

L’amore prima del viagra                                                                                            pag. 107
Casto amore, a limone e che bello - La fotografia - Unione civile- L’amore al tempo del viagra.

Della morte e d’altre facezie                                                                                       pag. 131
Una morte libertina - Morto che allunga - Dietro le quinte della camera ardente – Un monologo nella cripta - L’incompiuta - Morto che saluta- Un vestito per la morte.

Pianeta onirico                                                                                                             pag. 183
Luna piena e maculata- Il risveglio del telamone- Peppi Nifu è tornato- Un uomo chiamato viaggio.

Il fiume anidro                                                                                                              pag. 207
Dazio - Costolette di maiale - A finanza - Vantari la vigna - Setti vestii e canticchia - Quattro piedi e un culo - In trincea, in trincea… La guerra sta… tornando - Fratello mulo




L’umanità del “cuntu”
C’era una volta il “cuntu”, il racconto orale che costituiva l’anello principale della catena di trasmissione della memoria. Per secoli, per millenni, grazie a questa peculiare forma di narrazione, gli uomini e le donne, anche analfabeti, ebbero accesso alla cultura, al diritto alla memoria. Oggi, purtroppo, non è più così.
A differenza del racconto scritto, quello orale non è statico ma è sempre in divenire. È come un fiume che va verso il mare e che durante la traversata incontra gente che attinge acqua o che ne aggiunge.
Così il “cuntu”, passando di bocca in bocca, corre il rischio di essere ritoccato, accorciato o allungato, in compenso assume nuove forme che gli consentono di continuare a vivere nel tempo.
Gli esempi più autorevoli di tale travaglio sono i Libri sacri delle tre religioni monoteiste (la Bibbia, i Vangeli, il Corano) scritti dopo lunghi periodi (anche secoli) di trasmissione orale. Chissà che fine avrà fatto il pensiero originario?
Sappiamo, solo, che da quando tali Scritture sono cristallizzate sul foglio, le guerre di religione non si sono più fermate.
Oggi, il racconto orale non regge più il confronto con le moderne tec-niche di narrazione e di comunicazione. Siamo passati dall'umanità del “cuntu”, che favorisce la socialità cittadina e la comunione familiare alla vita parcellizzata, solitaria, alienata dei contemporanei; dall’agorà al tubo catodico, dal salone del barbiere alla realtà anonima dei condo-mini, dagli ipermercati al consumismo sfrenato imposto dai “nuovi mercanti” che dominano il mondo.
L’umanità è sottoposta a un attacco insidioso, criminale e globale, che non ha precedenti nella sua storia moderna, conseguenza di un disegno neo-imperiale che si nutre di violenza, di morte e, come sempre, di profitti scandalosi. Contro tutto ciò è necessario promuovere una sorta di resistenza civile, culturale e di massa, elaborare e proporre un progetto culturale alternativo di comunicazione sociale.
Per salvare le lingue, le memorie, individuali e collettive. Non per tornare al passato ma per meglio organizzare il futuro. Per restare umani.
Questo lavoro vuole essere un piccolo contributo allo sforzo più grande invocato. Quel che io porto è un cestino di rosse cerase ossia i frutti del mio giardino segreto che coltivo, in solitudine, da decine di anni: ricordi, fatti veri o inventati, brandelli di memoria, prevalentemente, riferiti al mio borgo natio, oggi morente.
Agendo sul tenue filo della memoria, degli appunti ho fatto quel che ho potuto. Spero soltanto che il risultato sia degno dello sforzo compiuto. (a.s.)








sabato 29 aprile 2017

"I FIORI DEL TEMPO RITROVATO", nuovo libro di Agostino Spataro



"I FIORI DEL TEMPO RITROVATO"
 Volume 1°-



INDICE
Il tempo delle meraviglie                                                 pag. 4
La dance music: da New York a Realturco - “Pira nun facisti e mraculi vo fari ” - L’uomo che portò il cinema a Realturco - Il venditore di fortuna - L’antro di Abu Agim - Cubbaitara - I morti volanti - La radio - La viulata di san Jabicu - Cristo tra le stoppie.
Il tempo ritrovato                                                             pag. 74
L’orto dei meloni - L’onore perduto della cugina americana - Matri­monio notturno - Cu voli grazii… - Mietitura - Cunsamu anelli, svegli e orecchine - Il fotografo ambulante - Il compratore di ferro vecchio - U vanniaturi - Alcuni giochi fanciulleschi - Capelli per pupe e spingule francesi - La crisi e le feste comandate - Elogio della ficodindia nata­lina - Strattu di pumadamuri - Un viaggio in autobus.
Il tempo divinato                                                              pag. 144
Monte Famoso - Le età dell’uomo - L’uomo che fermò il vento, ma non conquistò la luna: 1° episodio “Dragunera”; 2° episodio “Prova d’ombra, ritorna la teoria geocentrica” - L’humor nero di Peppi San­giorgi - Bestemmie cifrate - Fritto misto di…sangue - Family day, il dolore di una madre del Sud - Il ritorno del padre - La corda lunga - Il respiro della Terra - Poesia dell’assurdo.
Il tempo incatenato                                                          pag. 202
Bellafana - Il gatto congelato - La viscuglia, il raccolto dei poveri - Il pozzo di Sofia: l’onore salvato, la figlia perduta - O mi maritati o mi mangiu a Gilormu.
Il tempo incoronato                                                          pag. 242
La neo martire - Anche l’occhio di Dio vuole la sua parte - All’osteria di Papata Giugia - Il passionista - La grande Madre roccia - L’eco va­gante - Niculizia - Gli uccelli, i primi re.
Il tempo malvissuto                                                          pag. 284
Il cacciatore di pettirossi- Aritmetica mafiosa - Estrema finzione - Il supplizio dell’omertà - Le cantatrici scalze di donna Bertina - Patruni e cumpagnu - Il re del terremoto - Il cavaliere Lampasona.



Nota dell’Autore
La nostra storia (cenni)

1...              Realturco è un paesino grazioso accucciato sopra una collina emergente al centro di un immenso cratere, lungo la fascia che va dai templi di Agrigento alle prime propaggini dei monti sicani.
Come tanti altri in Sicilia e nel Meridione, purtroppo è un paese mo­rente, condannato dall’emigrazione storica e da quella attuale che si porta via i giovani, soprattutto diplomati e laureati.
Paese in prevalenza di anziani, sembra rassegnato ad affidare la sua speranza di sopravvivenza non al naturale ricambio generazionale ma al modesto flusso d’immigrati.
Questo l’identikit del paese, secondo i dati Istat, forniti dal Comune:
popolazione 1.248 abitanti (censimento del 2011). Nel 1922 era di circa 3.000 abitanti. Rispetto a tale dato c’è una perdita del 59%.
La decrescita non si è fermata. Oggi, il paese presenta un saldo demo­grafico assai negativo (-119) nel periodo 2002/ 15, durante il quale si sono registrati 258 decessi e solo 137 nascite. Il picco più preoccu­pante si è avuto nel 2014 con 5 nascite e 16 decessi.
Non dovrebbe essere difficile capire che, di questo passo e se non s’interviene adeguatamente, fra qualche tempo ci resteranno, come qui si dice, solo “gli occhi per piangere”.

2...              Nell’attesa, e sperando che la tendenza possa essere invertita, è utile ricordare alcuni cenni alla sua storia desunti da libro “Ioppolo Giancaxio: fra storia e memoria” (del 1996) al quale rinvio.
Il paese fu fondato nel 1696 da un rampollo della famiglia Colonna di Cesarò, nel quadro di una nuova politica di ripopolamento dei feudi e dei latifondi siciliani. L’obiettivo prioritario era quello di fornire ai proprietari, mediante i nuovi insediamenti, manodopera a basso costo da sfruttare in maniera continuata.
Il possesso di un maggior numero di feudi, di “anime” e di “fuochi”, serviva a quell' aristocrazia, oziosa e assenteista, per assicurarsi un po­sto di rilevo a corte e/o in parlamento e di vivere nel lusso delle loro sontuose dimore di Palermo, di Napoli, se non addirittura, di Parigi.
In Sicilia, nemmeno la sua formale abolizione (1812) fece scomparire il feudo e il sistema socio-economico generato. Di fatto, sopravvisse fino al secondo dopoguerra del 1900, anteponendosi al progresso, ri­tardando le conquiste sociali e le riforme politiche importanti già in vi­gore in altre contrade d’Italia e d’Europa. Tale storico ritardo spiega molti dei mali che ancora affliggono la Sicilia e i siciliani.

3...              Sulla realtà del feudo non si è scritto abbastanza. Ancor meno si è fatto per informare, per formare le coscienze delle generazioni post-feudali. Per liquidarlo ci sono volute lotte gloriose di popolo e il sacrificio di contadini-eroi che caddero sotto il piombo di una mafia barbara e servile. Anche il popolo del nostro paesino partecipò, con esiti alterni, a questa epopea politica e sociale che segnava il suo vero, primo rinascimento. Le terre del duca furono espropriate e assegnate alle famiglie dei contadini senza terra i quali andarono perfino a semi­narle.
Un ettaro a testa per 180 capifamiglia. La riforma agraria aveva trion­fato anche in questa landa desolata, dimenticata.
Contro gli espropri dei feudi, le figlie eredi dell’ultimo duca Colonna di Cesarò e i loro tirapiedi prezzolati usarono ogni astuzia, ogni in­ganno, ricorsero alle violenze per far revocare i decreti prefettizi.
Purtroppo, a causa di un banale (?) errore della cooperativa richiedente l’esproprio, le eredi riuscirono nell’intento e vendettero le proprietà (terre e castello), in fretta e furia, a un prete che agiva per se stesso e per conto terzi.
Quei 180 padri di famiglia assegnatari, furono costretti ad abbandonare i lotti già seminati e con essi la speranza di una vita più degna. Quasi tutti emigrarono all’estero a cercare lavoro e libertà: in Belgio, in Ve­nezuela, in Canada, negli Usa, in Argentina, in Australia perfino.

4...              Per circa un millennio, la storia del feudo fu storia d’iniquità e di sopraffazioni, di miseria e di sfruttamento dei ceti popolari, dei braccianti poveri e senza terra. Perciò, meraviglia vedere dedicare al feudo, ai feudatari taluni organismi pubblici comunali e intercomunali sovvenzionati con fondi della Repubblica democratica, della Regione e/o dell’Unione europea.
Si prova solo disgusto nel dover leggere che Ioppolo Giancaxio, Raf­fadali, Santa Elisabetta, ecc. fanno parte del “Feudo d’Ali” come, im­provvidamente, è stata nomata l’Unione di comuni, uno dei tanti, inu­tili organismi associativi degli enti locali. Se proprio si vuol dare un nome a un organismo pubblico bisogna cercare non tra i nomi dei feu­datari, ma tra quelli dei martiri e dei dirigenti che li hanno combattuti.
Siamo di fronte a una regressione culturale spaventosa. Evidentemente, si è passati dalle terre incolte dei feudatari alle menti incolte dei mo­derni lacchè.


AVVERTENZA

Al fine prevenire fastidi di sorta ho dovuto “trasferire” il paese e i personaggi richiamati nel libro a Realturco ossia dalla realtà al mondo del fantastico, dove spero non ci possano raggiungere le vespe terrane. Dichiaro che le persone, i luoghi qui citati sono frutto della fantasia dell’autore il quale, egli stesso, é un' invenzione del caso che passa e… guarda. Chiedo perdono ai “trasferiti”, dei quali conservo un caro ricordo, per averli un po’ trasfigurati. Purtroppo, qualcuno ha voluto avvelenare il pozzo della memoria. Ma non è difficile riportare queste “passate”e i loro protagonisti dal mondo del fantastico alla realtà che molti conosciamo.
Storia vecchia! Anche autori importanti quali Leonardo Sciascia e, oggi, Andrea Camilleri hanno dovuto “trasferire” i loro paesi.
Nella mia opera di “viscugliatore” ho raccolto tante “passate”, vere o in parte inventate. Troppe. Perciò, ho dovuto fare una selezione in base a due valori semplici e fondanti: dignità e indegnità.          Sono convinto che i narratori “allunghino” la vita dei loro personaggi. Non prometto nulla ai miei. Desidero solo riservare tale privilegio a chi lo merita. Fra i quali metto alcuni miei avversari politici che re­puto degni di essere ricordati. Chi non lo merita è giusto che scompaia fra i flutti dell’oblio.
Forse, pubblicherò alcune delle storie scartate in un' edizione-verità, riservata e non commerciale, in cui restituirò nomi e volti ai luoghi e ai personaggi. Questo lavoro, costatomi una dura e lunga fatica e che dedico ai pochi neonati e ai nostri tantissimi emigrati, vuole essere un contributo alla ricostruzione della memoria collettiva, dell' identità culturale del paese. Nella stesura dei pezzi ho usato spesso termini della parlata locale (la nostra “prima lingua”), per renderli più fedeli alla realtà storica, al nostro sentire e modo di essere.
Ho lavorato in solitudine per il mio diletto e anche per esigenze tera-peutiche, su consiglio del medico. Insomma, non aspiro a premi, a riconoscimenti ma solo alla buona salute. Dopo lo sforzo, abbiamo controllato i “valori” e risultano stazionari.
Chiedo solo un po’ di comprensione per qualche imprecisione, errore, refuso che è possibile incontrare. Quando non diversamente indi­cato, i pezzi devono intendersi collocati fra la seconda guerra mon­diale e gli anni ’70. Alcuni racconti sono stati pubblicati, con altro ti­tolo e, talvolta, con uno pseudonimo, in vari giornali, fra cui “La Repubblica”. Leggete, se volete. E volate in alto, sempre più in alto, come gli uccelli di Aristofane,“i primi re”, evocati nel libro. E sarete liberi. (a.s.)

lunedì 24 aprile 2017

25 APRILE. FESTA DELLA LIBERTA' E NELL'UNITA' ANTIFASCISTA


Pietro Spataro - Sei anni fra servizio militare e prigionia in un lager nazista in Germania, come attesta questa medaglia del Presidente della Repubblica conferitagli postuma (purtroppo)




IL RITORNO DEL PADRE*

1...              La guerra era finita da un pezzo. In tutto il mondo si festeg­giava la vittoria sul nazifascismo, il male assoluto. Anche nei Paesi che avevano attizzato la guerra. Buona parte dei sopravvissuti erano tornati a casa o erano sulla via del ritorno. Cominciavano ad arrivare anche alcuni morti. L’atmosfera che si respirava era di gioia per la fine di un incubo durato quasi sei anni. Il fine-guerra cancellava le colpe e le ferite. La gente aveva  voglia di vita, di cambiare pagina.
Soltanto una particolare categoria di belligeranti tardava ad arrivare. Erano i co­siddetti “sbandati” i quali, a decine, a centinaia di migliaia, si aggirava­no fra le rovine dell’Europa e per i deserti d’Africa.
Sbandati? No. Non erano sbandati ma uomini coraggiosi che, dopo l’otto settembre del 1943, rifiutarono di  combattere per i nazifascisti.
Fra questi “sbandati” molti gli italiani (600 mila). i quali, restarono fedeli al giuramento fatto al re d’Italia, pur avendo saputo del monito terri­bile che i nazisti diedero ai nostri soldati a Cefalonia, dove furono uccisi, a sangue freddo, cinquemila militari della divisione “Aqui”.
…Gli “sbandati” vagavano da un punto all’altro dell’orribile “teatro” della guerra: dalla Russia alla Germa-nia, dai Balcani alla Francia, dalla Libia all’Egitto, all’Abissinia, ecc.
Dopo anni di feroce scannamento, seguirono la lugubre prigionia, le umiliazioni, le privazioni, il freddo, la fame nei lager nazisti.
Non furono considerati “prigionieri di guerra” ai sensi delle conven­zioni internazionali, ma semplici “internati”, per poterli brutalmente sfruttare nei campi di lavoro nazisti e per non dovere, domani, risarcire i danni provocati dalla prigionia. Ancora oggi questa è la posizione della Ger­mania ricca e democratica.
Dopo la disfatta totale del regime di Hitler, la conquista di Berlino da parte dell’Armata rossa (quello sì fu un vero crollo!), partirono, a piedi o con mezzi di fortuna, senza cibo e ricovero, laceri e disperati, verso casa, verso le mogli abbandonate e i figli che non avevano visto nascere e crescere.

2...              Fin dagli inizi del maggio 1945, cominciarono ad arrivare a Realturco i primi reduci provenienti dai diversi fronti. Uomini sopravvissuti alla più grande catastrofe del secolo, che erano stati in­truppati con la promessa di abiette conquiste di (in)civiltà, stavano tor­nando  malconci, denutriti, malati. Alcuni con le ferite ancora fasciate.
Comunque, vivi. Scendevano ad Aragona Caldare dalle tradotte che tra­sportavano zolfo e salgemma a Porto Empedocle. Molti erano rimasti indietro o erano dati per “dispersi”.
“Disperso” è una parola ambigua. Specie quando da aggettivo si trasforma in sostantivo poiché incorpora una condizione terribile per chi lo è, diventa un eufemismo angoscioso per i familiari che aspettano.
Arrivavano con il contagocce. Uno, due il giorno. Certi giorni nessuno.
Sul paese aleggiavano la speranza e un gioioso fervore, ma anche un inconfessato timore.
Sulla rocca, sulle alture del paese c’era sempre qualcuno che scrutava l’orizzonte a Oriente, verso Aragona, Comitini, le Macalube, i pozzi di “cravunaru”, la trazzera contorta di “passu Ragona”.
... Uomini irriconoscibili, trasfigurati dalla fatica, dalle atrocità della guerra. Occhi che cercavano altri occhi. Poi un grido: “Papà”, “Figliu beddru di l’arma”.
Erano arrivati solo due “sbandati” per la gioia di due famiglie. E gli altri? Delusi, risalivano verso le case. Riprendeva l’attesa...

3...              Dalla fine della guerra erano passati tre mesi e ancora mio pa­dre non era arrivato. A parte i morti accertati o dati per dispersi in Rus­sia, all’appello mancavano in pochi.
E fra questi pochi mio padre che doveva rientrare dalla prigionia scontata in un lager nazista, in Germania.
Mia madre cominciava a dubitare dell’arrivo del marito. Non si ave­vano notizie. Qualche reduce era tornato dalla Germania, ma dichia­rava di non sapere nulla di mio padre.
Mia madre capiva il senso di tali ragionamenti e continuava a sperare. Che altro poteva fare? Doveva sperare soprattutto per quel figlio bam­bino che vedeva arrivare i papà degli altri e mai il suo che, per altro, non conosceva.
Lillo, infatti, era nato nell’ottobre del 1941, pochi mesi prima che papà fosse inviato al fronte d’Albania. Sapeva di avere un padre, senza averlo mai conosciuto per davvero.
Con la guerra, succede anche questo: padre e figlio possono morire senza essersi conosciuti.
Una sera d’agosto, mio padre arrivò mischiato in un gruppetto di reduci. Alla Fontanazza si creò una gran confusione. Chi correva di qua, chi di là. Ognuno cercava il padre, il fratello, il figlio.
Lillo, che come detto non conosceva il padre, a ognuno che vedeva impolverato, circondato da un nugolo di persone contente, domandava: “Tu chi si me patri?”
Quello non gli dava retta. Correva verso un altro: “Chi si me patri?”
Alla fine si trovarono, si abbracciarono e crebbero insieme per un lungo tratto della loro vita.                                    

6…       Fin qui il racconto di mio fratello Lillo, al quale desidero aggiungere un ricordo di mia madre ovviamente raggiante di gioia per il ritorno del marito.
Papà, rifocillatosi alla belle e meglio, si sedette al tavolo con la sua piccola famiglia ritrovata e con i parenti più intimi.
Si accorse che mancavano i suoi di parenti, del lato Spataro. Non capiva quell’assenza. Forse non erano stati avvisati? 
Domandò: “Dov’è me patri? Perché non è venuto?”
“E’ andato in campagna. Non immaginava che saresti tornato oggi. Sai da quanto che aspettiamo…”, gli rispose mia madre.
“E mia sorella Carmena dov’è? Abita ca vicinu.”
“E’ rimasta a casa picchi è malata. Po vi viditi.”
“E Mita unné. Mancu iddra vinni.”
“E’ intra ca bada a lu furnu. Sai u travagliu…”
“E me matri………….”
 Nessuno rispose. A questo punto, si rese conto che le risposte non erano veritiere, ma nascondevano una tragica verità. Scoppiò in un pianto dirotto, incontrollabile.
Scoprì che in quei cinque anni, fra fronte e prigionia, era scomparsa metà della sua famiglia senza che lui ne sapesse nulla.

* Brani tratti da "I FIORI DEL TEMPO RITROVATO"  (in corso di stampa)