sabato 29 aprile 2017

"I FIORI DEL TEMPO RITROVATO", nuovo libro di Agostino Spataro



"I FIORI DEL TEMPO RITROVATO"
 Volume 1°-



INDICE
Il tempo delle meraviglie                                                 pag. 4
La dance music: da New York a Realturco - “Pira nun facisti e mraculi vo fari ” - L’uomo che portò il cinema a Realturco - Il venditore di fortuna - L’antro di Abu Agim - Cubbaitara - I morti volanti - La radio - La viulata di san Jabicu - Cristo tra le stoppie.
Il tempo ritrovato                                                             pag. 74
L’orto dei meloni - L’onore perduto della cugina americana - Matri­monio notturno - Cu voli grazii… - Mietitura - Cunsamu anelli, svegli e orecchine - Il fotografo ambulante - Il compratore di ferro vecchio - U vanniaturi - Alcuni giochi fanciulleschi - Capelli per pupe e spingule francesi - La crisi e le feste comandate - Elogio della ficodindia nata­lina - Strattu di pumadamuri - Un viaggio in autobus.
Il tempo divinato                                                              pag. 144
Monte Famoso - Le età dell’uomo - L’uomo che fermò il vento, ma non conquistò la luna: 1° episodio “Dragunera”; 2° episodio “Prova d’ombra, ritorna la teoria geocentrica” - L’humor nero di Peppi San­giorgi - Bestemmie cifrate - Fritto misto di…sangue - Family day, il dolore di una madre del Sud - Il ritorno del padre - La corda lunga - Il respiro della Terra - Poesia dell’assurdo.
Il tempo incatenato                                                          pag. 202
Bellafana - Il gatto congelato - La viscuglia, il raccolto dei poveri - Il pozzo di Sofia: l’onore salvato, la figlia perduta - O mi maritati o mi mangiu a Gilormu.
Il tempo incoronato                                                          pag. 242
La neo martire - Anche l’occhio di Dio vuole la sua parte - All’osteria di Papata Giugia - Il passionista - La grande Madre roccia - L’eco va­gante - Niculizia - Gli uccelli, i primi re.
Il tempo malvissuto                                                          pag. 284
Il cacciatore di pettirossi- Aritmetica mafiosa - Estrema finzione - Il supplizio dell’omertà - Le cantatrici scalze di donna Bertina - Patruni e cumpagnu - Il re del terremoto - Il cavaliere Lampasona.



Nota dell’Autore
La nostra storia (cenni)

1...              Realturco è un paesino grazioso accucciato sopra una collina emergente al centro di un immenso cratere, lungo la fascia che va dai templi di Agrigento alle prime propaggini dei monti sicani.
Come tanti altri in Sicilia e nel Meridione, purtroppo è un paese mo­rente, condannato dall’emigrazione storica e da quella attuale che si porta via i giovani, soprattutto diplomati e laureati.
Paese in prevalenza di anziani, sembra rassegnato ad affidare la sua speranza di sopravvivenza non al naturale ricambio generazionale ma al modesto flusso d’immigrati.
Questo l’identikit del paese, secondo i dati Istat, forniti dal Comune:
popolazione 1.248 abitanti (censimento del 2011). Nel 1922 era di circa 3.000 abitanti. Rispetto a tale dato c’è una perdita del 59%.
La decrescita non si è fermata. Oggi, il paese presenta un saldo demo­grafico assai negativo (-119) nel periodo 2002/ 15, durante il quale si sono registrati 258 decessi e solo 137 nascite. Il picco più preoccu­pante si è avuto nel 2014 con 5 nascite e 16 decessi.
Non dovrebbe essere difficile capire che, di questo passo e se non s’interviene adeguatamente, fra qualche tempo ci resteranno, come qui si dice, solo “gli occhi per piangere”.

2...              Nell’attesa, e sperando che la tendenza possa essere invertita, è utile ricordare alcuni cenni alla sua storia desunti da libro “Ioppolo Giancaxio: fra storia e memoria” (del 1996) al quale rinvio.
Il paese fu fondato nel 1696 da un rampollo della famiglia Colonna di Cesarò, nel quadro di una nuova politica di ripopolamento dei feudi e dei latifondi siciliani. L’obiettivo prioritario era quello di fornire ai proprietari, mediante i nuovi insediamenti, manodopera a basso costo da sfruttare in maniera continuata.
Il possesso di un maggior numero di feudi, di “anime” e di “fuochi”, serviva a quell' aristocrazia, oziosa e assenteista, per assicurarsi un po­sto di rilevo a corte e/o in parlamento e di vivere nel lusso delle loro sontuose dimore di Palermo, di Napoli, se non addirittura, di Parigi.
In Sicilia, nemmeno la sua formale abolizione (1812) fece scomparire il feudo e il sistema socio-economico generato. Di fatto, sopravvisse fino al secondo dopoguerra del 1900, anteponendosi al progresso, ri­tardando le conquiste sociali e le riforme politiche importanti già in vi­gore in altre contrade d’Italia e d’Europa. Tale storico ritardo spiega molti dei mali che ancora affliggono la Sicilia e i siciliani.

3...              Sulla realtà del feudo non si è scritto abbastanza. Ancor meno si è fatto per informare, per formare le coscienze delle generazioni post-feudali. Per liquidarlo ci sono volute lotte gloriose di popolo e il sacrificio di contadini-eroi che caddero sotto il piombo di una mafia barbara e servile. Anche il popolo del nostro paesino partecipò, con esiti alterni, a questa epopea politica e sociale che segnava il suo vero, primo rinascimento. Le terre del duca furono espropriate e assegnate alle famiglie dei contadini senza terra i quali andarono perfino a semi­narle.
Un ettaro a testa per 180 capifamiglia. La riforma agraria aveva trion­fato anche in questa landa desolata, dimenticata.
Contro gli espropri dei feudi, le figlie eredi dell’ultimo duca Colonna di Cesarò e i loro tirapiedi prezzolati usarono ogni astuzia, ogni in­ganno, ricorsero alle violenze per far revocare i decreti prefettizi.
Purtroppo, a causa di un banale (?) errore della cooperativa richiedente l’esproprio, le eredi riuscirono nell’intento e vendettero le proprietà (terre e castello), in fretta e furia, a un prete che agiva per se stesso e per conto terzi.
Quei 180 padri di famiglia assegnatari, furono costretti ad abbandonare i lotti già seminati e con essi la speranza di una vita più degna. Quasi tutti emigrarono all’estero a cercare lavoro e libertà: in Belgio, in Ve­nezuela, in Canada, negli Usa, in Argentina, in Australia perfino.

4...              Per circa un millennio, la storia del feudo fu storia d’iniquità e di sopraffazioni, di miseria e di sfruttamento dei ceti popolari, dei braccianti poveri e senza terra. Perciò, meraviglia vedere dedicare al feudo, ai feudatari taluni organismi pubblici comunali e intercomunali sovvenzionati con fondi della Repubblica democratica, della Regione e/o dell’Unione europea.
Si prova solo disgusto nel dover leggere che Ioppolo Giancaxio, Raf­fadali, Santa Elisabetta, ecc. fanno parte del “Feudo d’Ali” come, im­provvidamente, è stata nomata l’Unione di comuni, uno dei tanti, inu­tili organismi associativi degli enti locali. Se proprio si vuol dare un nome a un organismo pubblico bisogna cercare non tra i nomi dei feu­datari, ma tra quelli dei martiri e dei dirigenti che li hanno combattuti.
Siamo di fronte a una regressione culturale spaventosa. Evidentemente, si è passati dalle terre incolte dei feudatari alle menti incolte dei mo­derni lacchè.


AVVERTENZA

Al fine prevenire fastidi di sorta ho dovuto “trasferire” il paese e i personaggi richiamati nel libro a Realturco ossia dalla realtà al mondo del fantastico, dove spero non ci possano raggiungere le vespe terrane. Dichiaro che le persone, i luoghi qui citati sono frutto della fantasia dell’autore il quale, egli stesso, é un' invenzione del caso che passa e… guarda. Chiedo perdono ai “trasferiti”, dei quali conservo un caro ricordo, per averli un po’ trasfigurati. Purtroppo, qualcuno ha voluto avvelenare il pozzo della memoria. Ma non è difficile riportare queste “passate”e i loro protagonisti dal mondo del fantastico alla realtà che molti conosciamo.
Storia vecchia! Anche autori importanti quali Leonardo Sciascia e, oggi, Andrea Camilleri hanno dovuto “trasferire” i loro paesi.
Nella mia opera di “viscugliatore” ho raccolto tante “passate”, vere o in parte inventate. Troppe. Perciò, ho dovuto fare una selezione in base a due valori semplici e fondanti: dignità e indegnità.          Sono convinto che i narratori “allunghino” la vita dei loro personaggi. Non prometto nulla ai miei. Desidero solo riservare tale privilegio a chi lo merita. Fra i quali metto alcuni miei avversari politici che re­puto degni di essere ricordati. Chi non lo merita è giusto che scompaia fra i flutti dell’oblio.
Forse, pubblicherò alcune delle storie scartate in un' edizione-verità, riservata e non commerciale, in cui restituirò nomi e volti ai luoghi e ai personaggi. Questo lavoro, costatomi una dura e lunga fatica e che dedico ai pochi neonati e ai nostri tantissimi emigrati, vuole essere un contributo alla ricostruzione della memoria collettiva, dell' identità culturale del paese. Nella stesura dei pezzi ho usato spesso termini della parlata locale (la nostra “prima lingua”), per renderli più fedeli alla realtà storica, al nostro sentire e modo di essere.
Ho lavorato in solitudine per il mio diletto e anche per esigenze tera-peutiche, su consiglio del medico. Insomma, non aspiro a premi, a riconoscimenti ma solo alla buona salute. Dopo lo sforzo, abbiamo controllato i “valori” e risultano stazionari.
Chiedo solo un po’ di comprensione per qualche imprecisione, errore, refuso che è possibile incontrare. Quando non diversamente indi­cato, i pezzi devono intendersi collocati fra la seconda guerra mon­diale e gli anni ’70. Alcuni racconti sono stati pubblicati, con altro ti­tolo e, talvolta, con uno pseudonimo, in vari giornali, fra cui “La Repubblica”. Leggete, se volete. E volate in alto, sempre più in alto, come gli uccelli di Aristofane,“i primi re”, evocati nel libro. E sarete liberi. (a.s.)

lunedì 24 aprile 2017

25 APRILE. FESTA DELLA LIBERTA' E NELL'UNITA' ANTIFASCISTA


Pietro Spataro - Sei anni fra servizio militare e prigionia in un lager nazista in Germania, come attesta questa medaglia del Presidente della Repubblica conferitagli postuma (purtroppo)




IL RITORNO DEL PADRE*

1...              La guerra era finita da un pezzo. In tutto il mondo si festeg­giava la vittoria sul nazifascismo, il male assoluto. Anche nei Paesi che avevano attizzato la guerra. Buona parte dei sopravvissuti erano tornati a casa o erano sulla via del ritorno. Cominciavano ad arrivare anche alcuni morti. L’atmosfera che si respirava era di gioia per la fine di un incubo durato quasi sei anni. Il fine-guerra cancellava le colpe e le ferite. La gente aveva  voglia di vita, di cambiare pagina.
Soltanto una particolare categoria di belligeranti tardava ad arrivare. Erano i co­siddetti “sbandati” i quali, a decine, a centinaia di migliaia, si aggirava­no fra le rovine dell’Europa e per i deserti d’Africa.
Sbandati? No. Non erano sbandati ma uomini coraggiosi che, dopo l’otto settembre del 1943, rifiutarono di  combattere per i nazifascisti.
Fra questi “sbandati” molti gli italiani (600 mila). i quali, restarono fedeli al giuramento fatto al re d’Italia, pur avendo saputo del monito terri­bile che i nazisti diedero ai nostri soldati a Cefalonia, dove furono uccisi, a sangue freddo, cinquemila militari della divisione “Aqui”.
…Gli “sbandati” vagavano da un punto all’altro dell’orribile “teatro” della guerra: dalla Russia alla Germa-nia, dai Balcani alla Francia, dalla Libia all’Egitto, all’Abissinia, ecc.
Dopo anni di feroce scannamento, seguirono la lugubre prigionia, le umiliazioni, le privazioni, il freddo, la fame nei lager nazisti.
Non furono considerati “prigionieri di guerra” ai sensi delle conven­zioni internazionali, ma semplici “internati”, per poterli brutalmente sfruttare nei campi di lavoro nazisti e per non dovere, domani, risarcire i danni provocati dalla prigionia. Ancora oggi questa è la posizione della Ger­mania ricca e democratica.
Dopo la disfatta totale del regime di Hitler, la conquista di Berlino da parte dell’Armata rossa (quello sì fu un vero crollo!), partirono, a piedi o con mezzi di fortuna, senza cibo e ricovero, laceri e disperati, verso casa, verso le mogli abbandonate e i figli che non avevano visto nascere e crescere.

2...              Fin dagli inizi del maggio 1945, cominciarono ad arrivare a Realturco i primi reduci provenienti dai diversi fronti. Uomini sopravvissuti alla più grande catastrofe del secolo, che erano stati in­truppati con la promessa di abiette conquiste di (in)civiltà, stavano tor­nando  malconci, denutriti, malati. Alcuni con le ferite ancora fasciate.
Comunque, vivi. Scendevano ad Aragona Caldare dalle tradotte che tra­sportavano zolfo e salgemma a Porto Empedocle. Molti erano rimasti indietro o erano dati per “dispersi”.
“Disperso” è una parola ambigua. Specie quando da aggettivo si trasforma in sostantivo poiché incorpora una condizione terribile per chi lo è, diventa un eufemismo angoscioso per i familiari che aspettano.
Arrivavano con il contagocce. Uno, due il giorno. Certi giorni nessuno.
Sul paese aleggiavano la speranza e un gioioso fervore, ma anche un inconfessato timore.
Sulla rocca, sulle alture del paese c’era sempre qualcuno che scrutava l’orizzonte a Oriente, verso Aragona, Comitini, le Macalube, i pozzi di “cravunaru”, la trazzera contorta di “passu Ragona”.
... Uomini irriconoscibili, trasfigurati dalla fatica, dalle atrocità della guerra. Occhi che cercavano altri occhi. Poi un grido: “Papà”, “Figliu beddru di l’arma”.
Erano arrivati solo due “sbandati” per la gioia di due famiglie. E gli altri? Delusi, risalivano verso le case. Riprendeva l’attesa...

3...              Dalla fine della guerra erano passati tre mesi e ancora mio pa­dre non era arrivato. A parte i morti accertati o dati per dispersi in Rus­sia, all’appello mancavano in pochi.
E fra questi pochi mio padre che doveva rientrare dalla prigionia scontata in un lager nazista, in Germania.
Mia madre cominciava a dubitare dell’arrivo del marito. Non si ave­vano notizie. Qualche reduce era tornato dalla Germania, ma dichia­rava di non sapere nulla di mio padre.
Mia madre capiva il senso di tali ragionamenti e continuava a sperare. Che altro poteva fare? Doveva sperare soprattutto per quel figlio bam­bino che vedeva arrivare i papà degli altri e mai il suo che, per altro, non conosceva.
Lillo, infatti, era nato nell’ottobre del 1941, pochi mesi prima che papà fosse inviato al fronte d’Albania. Sapeva di avere un padre, senza averlo mai conosciuto per davvero.
Con la guerra, succede anche questo: padre e figlio possono morire senza essersi conosciuti.
Una sera d’agosto, mio padre arrivò mischiato in un gruppetto di reduci. Alla Fontanazza si creò una gran confusione. Chi correva di qua, chi di là. Ognuno cercava il padre, il fratello, il figlio.
Lillo, che come detto non conosceva il padre, a ognuno che vedeva impolverato, circondato da un nugolo di persone contente, domandava: “Tu chi si me patri?”
Quello non gli dava retta. Correva verso un altro: “Chi si me patri?”
Alla fine si trovarono, si abbracciarono e crebbero insieme per un lungo tratto della loro vita.                                    

6…       Fin qui il racconto di mio fratello Lillo, al quale desidero aggiungere un ricordo di mia madre ovviamente raggiante di gioia per il ritorno del marito.
Papà, rifocillatosi alla belle e meglio, si sedette al tavolo con la sua piccola famiglia ritrovata e con i parenti più intimi.
Si accorse che mancavano i suoi di parenti, del lato Spataro. Non capiva quell’assenza. Forse non erano stati avvisati? 
Domandò: “Dov’è me patri? Perché non è venuto?”
“E’ andato in campagna. Non immaginava che saresti tornato oggi. Sai da quanto che aspettiamo…”, gli rispose mia madre.
“E mia sorella Carmena dov’è? Abita ca vicinu.”
“E’ rimasta a casa picchi è malata. Po vi viditi.”
“E Mita unné. Mancu iddra vinni.”
“E’ intra ca bada a lu furnu. Sai u travagliu…”
“E me matri………….”
 Nessuno rispose. A questo punto, si rese conto che le risposte non erano veritiere, ma nascondevano una tragica verità. Scoppiò in un pianto dirotto, incontrollabile.
Scoprì che in quei cinque anni, fra fronte e prigionia, era scomparsa metà della sua famiglia senza che lui ne sapesse nulla.

* Brani tratti da "I FIORI DEL TEMPO RITROVATO"  (in corso di stampa)