Primo episodio
Dragunera
1...
Qualcuno ancora
ricorda quella notte tetra, quando si scatenò una lotta furibonda fra ombre
sataniche che misero a soqquadro gli angusti anditi del piccolo borgo annidato
sulla collina dirimpetto al monte Atabirio. Una notte memorabile nella quale
irruppe un vento rabbioso, proveniente dal Sahara, che sferzò il paese con
folate di pioggia impastata di sabbia rossa. Un ingiusto flagello sopra gente
atterrita e muta. In quella notte senza stelle e senza Dio, si udì soltanto la
voce, terrea e potente, di Giosafat , il negromante.
“Citalena,
citalena, sangu pazzu e focu eternu, alluntanati stu ventu malignu. Fermati
dragunera ca staiu arrivannu!”
L’urlo
cavernoso del vecchio sciamano squarciò la coltre di terrore che avvolgeva i
catoi e sfidò il ghibli che, come un cavallo imbizzarrito, aveva galoppato per
l’arido vuoto, volato sopra la stretta distesa del mare africano e ora erompeva
nella notte oscura dei monti sicani.
Era
la notte della “dragunera”, un vento sterminatore che terrorizzava i contadini.
Un vero disastro che, per fortuna, giungeva assai di rado.
Simile
a una tempesta profetica, sconquassava ogni cosa: i giardini d’aranci e
d’ulivi, i campi di grano e d’orzo, le stalle e gli ovili e le capanne di
stoppie per la vasta campagna.
Scuoteva
anche le misere case di gesso che si tenevano, solidali, una con l’altra.
Brandelli di luce, emanata dai lampioni impazziti, animavano le
raccapriccianti creature del vento: ombre titaniche di case minute e mostri
volanti con arti pennuti.
Come
in una lotta mortale di forze terribili, la dragunera sibilava furente più di
prima come volesse annientare l’intero villaggio per zittire, subissare quella
voce, carica di disperato coraggio.
La
voce precedeva l’ombra bislunga di un uomo canuto, incassato in un pesante
pastrano dal quale penzolavano due braccia rinsecchite, aperte a forma di
croce.
Stringeva
una “citalena” con la quale tentava di rischiarare i furori del vento. Avanzò a
fatica fino al centro della piazza grande e urlò più forte.
“Curri,
curri cavaddrazzu ca lu chianu è tuttu to’, ora ju t’amminazzu e a la fini ti
sdirrupu!”
Il
ghibli ebbe come un respiro affannoso e poi cessò. Improvvisamente, com’era
venuto.
2...
Sotto un fascio
di luce giallognola apparve il volto estenuato di Giosafat. Stanco e vittorioso.
Chi
era veramente Giosafat? Non fu mai chiaro chi fosse effettivamente quest’uomo:
un impostore o un ingegno balzano, un mago o un seguace del demonio, l’arcano o
il nulla…
Addirittura,
per l’arciprete poteva essere figlio del demonio o Satana in persona il quale,
con la scusa della magia, tentava di ammaliare quella massa d’ignoranti
contadini.
In
realtà, Giosafat era un poveraccio, un millemestieri che si esercitava in giochi
di magia e in molteplici attività sperimentali. Con risultati assai
deludenti, pessimi.
Il
suo cruccio era quello di vedersi riconosciuto come inventore di quei strani
congegni che fabbricava nel sottoscala.
La
gente lo derideva o lo temeva, mai lo apprezzava.
Egli
si sentiva un genio con le ali purtroppo tarpate dal pregiudizio popolare.
Lavorava
in solitudine, lontano da occhi indiscreti, dentro una grotta millenaria,
sottostante l’abitazione familiare, forse residuo di una tomba sicana.
Sarà
stata sepolcro di un principe o una più umile dimora?
Per
la gente era la grotta di “fimmina morta” poiché, molto tempo prima, vi era
stato rinvenuto il cadavere, quasi intatto, di una bellissima dama forestiera.
Come
arrivò o chi la portò in quell’antro? Mistero. Un altro mistero scavato nel
sottosuolo di questo borgo apparentemente banale, senza storia, avvolto in un
realismo magico o tragico che tende a disperdere la sua esile identità.
Il
vento si acquietò e portò via quei mostri vaganti. Dalle porte di lindi catoi
uscirono uomini atterriti e tentennanti, andarono verso la piazza grande per
vedere l’uomo che aveva vinto la dragunera.
Giosafat,
spogliato del suo manto ombroso, apparve in tutta la sua scheletrica potenza.
Ieratico
e ancora tonante, ringraziò le arcane potenze per avergli accordato la
vittoria contro quel vento maligno. Raccolse tre pugni di sabbia rossa e si
asperse il capo e le vesti e così parlò alla folla invisibile e sgomenta:“Non
per voi, ma per me, solo per me, è venuta la dragunera …ma anche sta vota,
comu vinni s’inn’à jutu…A mani vacanti. Ancora cci nné ogliu a la lampa e forza
a la catina. Non è questo il segno del mio destino!”
Le
parole uscivano a fiotti dalla sua bocca decrepita e bavosa. Nessuno capiva il loro
significato ostentatamente esoterico. Come se stesse parlando con un’entità
lontana, con qualcuno con il quale aveva un conto da regolare.
Secondo
lui, la dragunera altro non era che strumento di una perfida congiura ordita, a
tradimento, dalla Signora nera per accopparlo in sonno.
La
sua morte prematura avrebbe spezzato la venerabile Catena.
Giosafat
si era autoproclamato uno dei cento uomini prescelti per formare la Catena che regge le sorti
dell’ignara umanità. A ciascuno di loro era stata affidata una copia del “Rutiliu”,
il libro delle Verità fondamentali, contenente la summa dei poteri e dei
saperi occulti.[1]
Il
Libro, che nulla aveva a che fare con la vulgata biblica, era stato stampato,
secoli prima, in soli cento esemplari e conferito, per le vie dell’arcano, a
ciascuno degli eletti, con l'obbligo di trasmetterlo al successore
predestinato.
Un
libro segreto che a Giosafat fu affidato da un ufficiale morente sulle montagne
del Carso, con la preghiera di recapitarlo a un medico di Roma che non riuscì a
trovare, durante la sua breve permanenza nella capitale. Era morto anche lui o
il destino volle che il Libro finisse nelle sue mani?
E,
una volta che lo aveva, se lo tenne.
Qualcuno
bene informato diceva che fosse un testo di magia nera, riservato agli iniziati
predestinati.
Il
libro conferiva al suo possessore un potere immenso: poteva trasformare le
immagini raffigurate in entità viventi e comandarle a suo piacimento.
Un
eletto che lo volle incontrare gli disse: “Ricordati fratello con questo Libro
possiamo fare solo il male, non il bene. Solo il male… Ricordati.”
3...
Con il “Rutiliu” in
mano, a Giosafat pareva di spogliarsi delle povere vesti quotidiane e d’indossare
il manto di un potere soprannaturale.
Nessuno
aveva mai visto quel libro malefico. Nemmeno i suoi di famiglia. Era un
argomento tabù. Egli stesso ne accennava assai raramente, solo per minacciare
qualcuno. Non voleva usarlo perché temeva che una volta attivato il
“meccanismo” potesse causare gravi danni ai dubbiosi, a tutti quei cretini suoi
detrattori.
Nonostante
ciò, taluni continuavano a deriderlo. Giosafat li fulminava con il suo sguardo
di fuoco e li aggiungeva nella lista nera.
Alcuni,
invece, seguivano i suoi racconti, si lasciavano suggestionare dalle sue
sicumere, dai suoi terribili scenari.
Ci teneva a precisare che il mero possesso del Libro
non faceva la potenza del suo possessore. Ogni “anello” della catena doveva
essere dotato di un fluido speciale. Nelle mani di un soggetto profano, il Rutilio
perdeva “la so putenza, la so forza svanisci.
Senza lu fluidu nun si po’ usari”.
A
detta di Giosafat, il libro conferiva al suo detentore un enorme potere
divinatorio e metamorfico.“Tutto quanto c’è stampatu vivu addiventa.” [2]
Vi
erano raffigurate immagini terrificanti: serpenti e draghi orripilanti che
avrebbero messo in fuga perfino la “bestia” dell’Apocalisse; arcigni guerrieri
dotati d' armi distruttive e Satana, in mille forme, che blandisce e tormenta
la debole umanità, secondo il suo capriccio.
Nel
Rutilio era contenuta tutta la forza del Male invisibile che poteva essere
liberata, anche in parte, a comando di uno degli eletti possessori.
Volendolo
Giosafat avrebbe potuto scatenare la furia devastatrice di quelle immagini. Più
di una volta, era stato tentato. Lo aveva fin’anco minacciato, pubblicamente,
se non altro per dare una lezione al prete che dall’altare lo perseguitava e a
quei furfanti increduli del circolo dei “Civili” che lo sfottevano da mattina a
sera.
4...
Di fronte a tale,
oscuro fenomeno la gente si mostrava incerta, spaventata. Paradossalmente, le
maledizioni del prete contribuivano ad accreditare la nefasta potenza di quel
vecchio invasato e le presunte minacce contenute in quel libro diabolico.
In
paese, nessuno si azzardava a contrariarlo anche quando annunciava nuove, portentose
scoperte della scienza occulta miranti a combattere le terrificanti epidemie
che sarebbero state importate dalla Luna, recentemente “conquistata”.
L’unico
che mal sopportava queste spacconate era Turiddru “diunterra”, esorcista
abusivo operante in tutto il circondario sotto le mentite spoglie
d’ingranditore di fotografie di parenti emigrati o defunti.
Quel
“Diunterra” era un epiteto sarcastico, uno sfottò del popolo, ma zi Turiddru, a
forza di sentirselo ripetere, un po’ vi si affezionò, comportandosi come un
incaricato dell’Altro che sta nei cieli.
Per
Diunterra, Giosafat era un ignorantone, un pezzente che fantasticava spinto
dai morsi della fame:
“Dategli
un osso e vedrete che la smetterà di millantare tutta questa confidenza con la
sublime arte dell’Occulto. Se mangia smette.”
I due si detestavano, reciprocamente. Si tenevano a
debita distanza per evitare lo scontro diretto.
Giosafat lo ripagava con la stessa moneta,
sfidandolo a ogni piè sospinto: “Diunterra? Un imbroglione che con la scusa di
lu ritrattu arrobba li genti… Latru di passu! Lo sfido davanti a tutti: io
sono pronto, unni e comu voli. Cu un
corpu d’occhi l’abbrusciu stu rinnegatu…Ju sugnu di la Catina e iddru è nenti”.
Non
si sa se per prudenza o per tacita intesa, i due non arrivarono mai a un
confronto diretto.
(Questo testo è stato pubblicato, con altro titolo, in “La Repubblica ” del 30/8/2002)
Secondo episodio
Prova d’ombra, ritorna la teoria geocentrica
Prova d’ombra, ritorna la teoria geocentrica
1...
Come detto,
Giosafat era un uomo d’ingegno, uno spirito originale, inquieto, bizzarro e un
tantino supponente. La sua arte sconfinava in vari campi. La sua bottega,
pardon il suo “laboratorio”, era luogo prediletto per una molteplicità di
mestieri utili ma non indispensabili. Era una sorta di tuttofare.
All’occorrenza, riusciva a essere fabbro, calzolaio, stagnaro, falegname,
vetraio, elettricista e anche alchimista, mago, astronomo.
In
tempi di magra, non disdegnava i lavori in campagna, come bracciante e
putateri.
Non
aveva frequentato scuole. Era un autodidatta.
Dominava
le sue arti con la sapienza acquisita dall’esperienza e con una pazienza
davvero certosina.
Inconsapevolmente,
partiva dal principio leonardesco secondo cui l’inventore, il costruttore
devono basare la loro scienza sull’osservazione della realtà dei fenomeni e
delle cose semplici; sulla esperienza diretta, personale che consente una più
agevole individuazione delle cause generatrici e motrici e quindi le
applicazioni scientifiche, gli esperimenti di laboratorio.
Da
ciascuna di tali arti cercava di astrarne l’essenza cioè la scienza pura.
Il
“laboratorio” era installato in una grotta, sotto al piano stradale di una
piccola via dove le case erano pertugi, umidi tuguri.
Amava
vivere in solitudine, dentro quella caverna (forse) preistorica.
La
famiglia abitava al piano rialzato un po’ per conto proprio. Con la moglie, con
i figli si vedevano per il pasto, quando c’era.
Accanto,
(muru cu muru) c’era la linda stanzetta della zia Fifa, religiosissima e
timorata di Dio, la quale sospettava che il vicino trafficasse con il demonio. Era
lei l’informatrice di patricipreti (arciprete).
Ogni
notte, udiva Giosafat imprecare, urlare frasi sconnesse mentre armeggiava con
il martello e con una morsa arrugginita che strideva a ogni mandata. Zia Fifa
si domandava: che cosa stringe?
Temeva
il peggio, specie quando sentiva uscire un odore acre di fumo di “grassolio”
(petrolio) dal “gattaloru” in basso della porticina che sigillava il tugurio, a
chiunque interdetto.
Trascorreva
gran parte della giornata e della nottata, rinchiuso nel laboratorio.
Raramente si affacciava nella vicina piazza principale.
E
quando accadeva era come un’apparizione inquietante o divertente, secondo il
punto di vista.
2...
Lavorava in quel
fosso, alla luce di una candela o di una debole lampadina elettrica. Non
desiderava esser visto all’opera. Teneva lontani i curiosi, soprattutto i
ragazzini che lo tormentavano con i loro pesanti scherzi da oratorio. Non
ammetteva interferenze nemmeno dei più intimi congiunti i quali, per altro,
temevano che, prima o poi, con i suoi esperimenti avrebbe fatto saltare in aria
la casa.
Una
volta, dal barbiere annunciò che avrebbe intrapreso un esperimento per
realizzare un prodotto più “putenti di la taramita (dinamite) di mastru Nardu”,
suo detrattore e concorrente in fatto di esplosivi.
In
giro si parlava della dinamite, ma solo pochi ne avevano costatato gli effetti
distruttivi. Nessuno sapeva che era stata inventata da un certo Nobel, uno
svedese molto sensibile alla scienza e alle arti, che, forse, tormentato dal
rimorso, per espiare il fio creò il premio omonimo.
L’annuncio
fece scattare l’allarme in tutto il caseggiato.
La
moglie non riusciva a prendere sonno, stava sempre “cu na vricchi
all’allallamicu”. Aveva paura che, da un momento all’altro, poteva succedere il
finimondo.
Giosafat,
imperterrito, continuava gli esperimenti nel massimo riserbo.
Temeva
le intrusioni, i sabotatori, le spie specializzate in sottrazione di brevetti.
“Sotto
forma d’agnello, i lupi girano…per papparsi l’agnello vero.” - soleva dire.
Incompreso
e dileggiato dal popolo “gnuranti” e incapace di capire anche i fenomeni più
elementari, il vecchio negromante non amava la compagnia. Parlava raramente
quasi sempre per annunciare un nuovo brevetto, la riuscita di un esperimento
del quale dava, a richiesta, una sintetica spiegazione. Chi capiva buon per
lui, chi non capiva peggio per lui.
Intavolare
una conversazione con quella gente era tempo perso. Usava, volutamente, un
linguaggio contorto, quasi ermetico; parole strane, inaudite che spaziavano fra
scienza e superstizione, fra stregoneria e fantascienza, fra universi misteriosi
e banalità dozzinali. Un pensiero aggrovigliato, confuso, frutto di una mente
certamente fervida, ma scarsamente illuminata dalla luce della scienza.
Memorabile
restarono alcune controversie fra Giosafat e un gruppetto di studenti. Una
metafora dello scontro più vasto e generale fra il “vecchio” e il “nuovo”, fra
una cultura morente e una nascente che, però, non si sapeva di chi fosse figlia
e, soprattutto, quali fossero le sue finalità.
Generalmente,
tali confronti avvenivano nella bottega di zi Tanu Bendico, il sellaio, ch’era
in piazza, dove si andava nei pomeriggi di pioggia ad ascoltare “cunti”,
“passate”
Quel
giorno la discussione verteva sull’eterno dilemma: la Terra è tunna o quatrata?
I
ragazzi, questa volta, osarono fin dove nessuno mai a Realturco. Proclamarono,
infatti, che la Terra
è “tunna”, ha forma sferica e che gira intorno al Sole e non viceversa. Era
questa la prima volta che in paese veniva affermata e proclamata, in pubblico,
la teoria eliocentrica.
Giosafat
ebbe come uno scatto d’ira, li aggredì di mala manera: “Chi nni capiti vantri!
Sticchiareddri. La Terra
è piatta, é ferma, non gira. A girarle intorno è l’universo mondo, le stelle,
la luna e il Sole che, non a caso, “nasci e tracoddra”, ogni giorno.”
Era
una sua convinzione empirica che, però, poteva far leva sul fatto che la Chiesa ancora formalmente
non l’aveva rinnegata.
La
discussione rischiò di degenerare. Fu fermata in tempo da zi Tanu il quale,
oltre a offrire ospitalità, doveva sorbirsi certe espressioni offensive,
d’intemperanza che potevano disturbare la clientela.
“Bah!
Picciò, itivinni a passiari ca cà amu a travagliari…”
A
ben pensarci quella disputa dal sellaio si svolse una trentina d’anni prima
che Giovanni Paolo II, a quattro secoli dalla condanna di Galileo, ammettesse
l’errore del Sant’Uffizio.
3...
In fondo,
Giosafat interpretava, a suo modo, la dottrina ufficiale della chiesa e il
sentimento del popolo che la condivideva non tanto in ossequio degli antichi
decreti, ma per il terrore di dover accettare l’idea che il Pianeta vagasse, sospeso,
nell’universo incognito, senza uno stabile ancoraggio.
Nell’incertezza,
è preferibile lasciare le cose come stanno.
Bollando
il pisano, i Padri del santo tribunale vollero rassicurare l’umanità più umile
sulla stabilità della sua residenza sulla Terra. Almeno questa certezza
bisognava darla.
Da
una superficie piatta e ferma non si poteva precipitare negli abissi cosmici.
Da una sferica e vagante invece…Bisognava avere sempre a portata di mano il
paracadute. E, ammesso di poterlo indossare in tempo utile, dove avrebbe
sballottato i paracadutati?
Copernico,
Galileo? Chi erano costoro? A Realturco non si avevano notizie dei loro
clamorosi dissensi. Solo qualcuno aveva sentito dire che Galileo, messo alle
strette (letteralmente), ritrattò, rinnegò la sua strampalata teoria eliocentrica.
“Munnu
a statu e munnu è” recita un detto della sapienza popolare, per ribadire una concezione
statica del mondo che faceva comodo un po’ a tutti.
Anche
a Giosafat, il quale temeva che le idee nuove avrebbero potuto travolgere la
sua “scienza”, il potere misterioso del suo “Rutiliu”.
Il
vecchio si atteggiava a custode della “verità”. Se la prendeva con la scuola,
con i libri che favorivano comportamenti irresponsabili.
“La
curpa è dei tanti libri che vi danno a scuola. Tutta roba superflua,
pericolosa. Prima a scola si ci iva - cu ci iva - cu un quadernu pi scriviri
sutta dittatura (dettatura). Nuddru n’aviamu libra e c’era la paci. Di libra ne
bastano due: la Bibbia ,
il libro santo della chiesa, e il Rutilio il libro magico della “Catena”.
Voleva
dire che, per secoli, il villaggio era vissuto nella pace edificante della
fede, al riparo delle grandi rivoluzioni.
Ora
questi giovani contestatori stavano portando la loro verità libresca nei circoli,
nelle barberie, nelle botteghe, ecc. In mezzo al popolo “nuccenti”.
Giosafat
intravide il pericolo di una contestazione forte, mirata a sconvolgere quella
realtà immutabile, dove anche lui, maledetto dal prete, trovava posto.
D’altronde, si era agli inizi degli anni ’60 (alla vigilia di quel fatidico
“68”) e nell’aria si avvertiva l’alito di un nuovo pensiero che avrebbe messo
in discussione il vecchio mondo e l’ordine morale esistente.
“Maledetti
libri! - certe volte urlava - È vero: il sapere non può essere elargito a cuor
leggero. Può traviare gli spiriti semplici”.
4...
Non poteva
consentire a quei quattro sbarbatelli presuntuosi di avvelenare l’acqua dei
pozzi dove il popolo si abbeverava. Decise di accettare la sfida. Continuò la guerra
contro gli studenti.
“È
nnutuli ca parlati cu lu tischi toschi; comu dici lu proverbiu: munnu a statu e
munnu è. E così sarà pi sempiri, pi l’eternitati”.
La
solita solfa. Non era un argomento, ma un luogo comune.
Gli
studenti sciorinarono un diluvio di citazioni intercalate da una sfilza di
“cioè”. Non si capiva se per convincere gli astanti dubbiosi o loro stessi che
li recitavano.
“Chiacchiari,
chiachiari! Farsa pulitica. Andiamo ai fatti.”
Tagliò
corto il vecchio che voleva uscire dal terreno per lui scivoloso, incognito,
delle teorie libresche.
“Nenti, nenti. Chiacchiari persi su li vostri.
Andiamo ai fatti, alla dimostrazione pratica da effettuare in pubblico, alla
luce del sole…
La
terra é ferma, ben piantata, altrimenti l’acqua si riverserebbe nello spazio
cosmico. I mari, i laghi, i fiumi, perfino i pozzi della Fontanazza si
svuoterebbero.
Vuliti
na prova? Ebbeni sia! Pigliati un catu d’acqua e fatilu girare a rota. Vidriti
ca nun ni ristirà acqua a lu funnu.
Il
posto si prestava all’esperimento, poiché fino a una certa ora del mattino era
avvolto per metà dalla luce solare e per l’altra metà da ombre dense, figlie
della notte estenuata.
Il
vecchio si sedette nella parte ombrata e così parlò agli astanti intervenuti:
“Mi raccumannu, taliati unni
sugnu assittatu, unni é la seggia. Lu
viditi è all’ummira! ”
In
pochi minuti, avvenne una piccola rivoluzione: il sole prosciugò l’arena di
quell’ombra e illuminò il volto di Giosafat trionfante per il successo dello
“sprimentu”. Si sciolse in un sorriso sarcastico e proclamò la vittoria sulle
fandonie di quei studenti presuntuosi:
“Lu
vidistivu cu li vostri stessi occhi: fermu eru e fermu sugnu. Non mi cataminavu
di un millimitru. Eppuru…Ah! Ah! Quarchi cosa è cangiata: prima eru all’ummira
ora sugnu a la luci…di lu suli. Eccuvi la prova ca è lu suli ca gira ntornu a la Terra e no lu cuntrariu…”
Terzo episodio
1...
L’altro,
memorabile confronto si svolse una sera, sempre nella stesa bottega del
sellaio, intorno a un tema di grande attualità: la “conquista della luna”.
Stavolta, Giosafat trovò pane per i suoi denti (che non aveva). Si accese,
infatti, una disputa fra lui e il solito gruppetto di studenti a proposito
della corsa spaziale fra i russi (che per primi erano riusciti a inviare un
uomo nello spazio) e gli americani che li stavano inseguendo, puntando alla conquista
della Luna. Un obiettivo molto ambizioso che se fosse stato conseguito avrebbe bruciato
il primato dei sovietici.
Il
vecchio sentenziò che “mai e po’ ma”, né gli uni né gli altri avrebbero potuto
conquistare la Luna. Ne
era certo, anzi certissimo.
“Mpussibili!”,
tuonò, mentre un filo di bava gli colava dalla sua bocca a forno.
“Russi,
americani mai potranno posarsi sulla Luna. Mbrogliu c’è. Sulu li fissa ci ponnu
cridiri a tali mbamità. Pirchì dovete sapiri che la Luna non esiste, è solo un
effetto ottico…di l’occhiu. Sulu li foddri, i pazzi ci cridinu; dicinu ca
acchiananu e scinninu di la
Luna. Sulu li pazzi, li pueta e li babbasuna comu a vantri ci
cridinu. Cu havi un pocu di sintimentu in testa nun ci cridi. Poviri babbi! A
veru, babbi!”
La
presa di posizione, negazionista su tutta la linea, suscitò le reazioni,
piuttosto scomposte, degli studenti che - come il solito - si appellarono ad articoli
di giornali, di riviste specializzate, a saggi scientifici, ecc.
Fra
gli astanti, molti parteggiavano per gli studenti. Quel vecchio era ormai fuori
di testa. Voleva avere sempre ragione.
Nonostante
l’evidente ostilità dell’uditorio, Giosafat passò al contrattacco.
“Vi
sfido. Anch’io sono capace di “prendere” la luna, con le mani, di conquistarla
senza bisogno di missili e di astronavi. Anche voi ci putiti pruvari. Ma è
tuttu un inganno. Vi parrà di afferrarla, di prenderla, ma a la“stringiuta” resterete
con le mani vacanti.”
2...
“Come? Come? Cosa
è questa storia? Ci faccia vedere?”, replicarono i saputelli della prima fila.
Detto
fatto. Giosafat, con fare pensoso, circospetto, guardò in cielo e vide una gran
luna a perpendicolo. Strinse il laccio intorno
alla vita per fermare i pantaloni che minacciavano di lasciarlo in mutande, si
passò un paio di volte la mano sul mento, quasi a volere spremere tutta la
sapienza imbrigliata nella sua barba incolta, scraccò (sputò) per terra e
chiese al vardiddraru di prestargli una bacinella piena d’acqua.
“Viniti
cu mmia”, si diresse verso il centro della piazza.
Posizionò
il bacile e fece rasserenare l’acqua. La luna, prima barcollante, si fermò,
luccicante, sulla superficie dell’acqua.
“Ecco,
dunque. Comu viditi, qui c’è la
Luna. È qua dentro, a portata di mano. Ora cercherò di
agguantarla, di afferrarla con le mani…”
A più
riprese affondò le sue mani rinsecchite, penetrò l’immagine, tentò di
afferrarla. Ma invano. La Luna
si scomponeva, sfuggiva come un’anguilla, non si lasciava prendere.
“Ora,
pruvati vantri ca vi sintiti sperti, ca iti a la scola. Videmu si siti capaci
di afferrarla, di conquistare la luna? Pruvati, pruvati!”
Nessuno
provò. La rinunzia fu per Giosafat la
conferma, la prova della loro resa.
“Vi
lu dissi e vi lu ripetu: la luna non esiste come corpo, è soltanto
un’illusione. Solo i pazzi…i pazzi e i poeti…” Gli scappò un sorriso tetro,
avvelenato. Si stava gustando il meritato trionfo.
Ma
quei calabroni non si diedero per vinti, Risposero con i sorrisetti beffardi e
borbottii ai più incomprensibili.
Qualcuno
gli pose una domanda a bruciapelo: “Ma vossia comu fa a diri che la Luna non esiste?”
Seccato
per la nuova punzecchiatura e non avendo una risposta pronta a quell’insolente
domanda, Giosafat ricorse a una delle
sue solite invettive: “Sticchiareddru! Chi fa ancora dubiti di la me scienza?
Ancora havi a nasciri chiddru ca mi po’ mettiri dintra lu saccu. Tu hai li
libra di la scola ca su nenti. I haiu lu“Rutiliu” e si vogliu t’abbrusciu.”
(fine)
[1]
Potrebbe trattarsi dell’Almanacco Perpetuo, composto nel XVI° secolo, da
Rutilio Benincasa Cosentino.
[2]
Secondo la “Treccani”, alcune leggende attribuiscono a "Rotilio" un
esperimento di richiamo in vita per svelare i misteri del- l’oltretomba. Esperimento fallito per la negligenza
di un servo. Da sottolineare un’analogia
con una leggenda bretone dove scopo dell'esperimento è il conseguimento
dell'immortalità.
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